
Riflessioni sull’uso del contatto in psicoterapia
L’articolo discute l’uso del contatto fisico in psicoterapia, evidenziando la sua ambivalenza tra diverse scuole di pensiero, specialmente quella psicoanalitica. Esplora le ragioni storiche e teoriche di questa controversia. Inoltre, analizza la relazione come un bisogno primario per gli esseri umani, fondamentale per lo sviluppo di un Sé corporeo intersoggettivo, con contributi dalla psicologia clinica e dalle teorie dell’attaccamento. Infine, esamina il contatto fisico come tecnica terapeutica, esplorando le sue potenzialità e rischi, con l’obiettivo di comprendere come possa influenzare positivamente o negativamente il processo terapeutico.
Francesco Mallardi (*); Franca Adele Rizzuni (**)
Abstract
La prima parte dell’articolo evidenzia l’ambivalenza che connota l’uso del contatto fisico in psicoterapia, come questo tema sia fonte di controversia tra diverse scuole di pensiero, in particolare quella psicoanalitica, e ne analizza le principali ragioni storiche e teoriche.
La seconda parte dell’articolo esplora la relazione, quale bisogno primario per l’essere umano, “condicio sine qua non” per lo sviluppo di un Sé corporeo intersoggettivo ed evidenzia i contributi offerti sia dalla psicologia clinica (infant observation, teorie dell’attaccamento, ecc.) che dalle neuroscienze.
La terza parte dell’articolo esamina l’uso del contatto fisico come intervento terapeutico, al fine di cogliere le potenzialità e i possibili rischi insiti in questa tecnica.
Parole chiave: attaccamento, contatto, deprivazione, legame, psicoanalisi, relazione, Sé
Introduzione
Il presente articolo trae spunto da un workshop, dal titolo “Il contatto in analisi e l’esperienza del Sé”, che gli Autori hanno condotto nell’ambito di un ciclo di seminari organizzati dall’IIFAB sul tema “CorpoNarrante: l’esperienza del sé nella relazione analitico corporea”. Il seminario, rivolto ad un pubblico di “addetti ai lavori” (laureandi in psicologia e medicina, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, neuropsichiatri) ha stimolato riflessioni e ha suscitato l’interesse di approfondire un tema, quello del contatto in psicoterapia, che da sempre si è caratterizzato come controverso e di difficile trattazione. Il seminario aveva sviluppato, in particolare, tre punti che abbiamo scelto di riprendere ed approfondire in maniera analitica in questo studio.
In primo luogo, abbiamo inteso evidenziare l’ambivalenza che connota questo argomento che, a seconda delle scuole di pensiero e dei vari modelli teorici di riferimento, viene presentato come agito del terapeuta o, all’opposto, riconosciuto come intervento terapeutico efficace. È stato, allora, interessante analizzare le ragioni storiche e teoriche che hanno portato la scuola psicoanalitica in particolare a vedere nel contatto un agito; verificare come un certo clima culturale e scientifico abbia condizionato il modo di pensare e di procedere, esacerbando un atteggiamento resistente, quando non un vero e proprio pregiudizio rispetto al contatto.
Una parte dell’articolo è stata, quindi, dedicata ad una ricognizione nel panorama degli studi, alla ricerca di quegli autori che, nel loro percorso, hanno riconosciuto il ruolo fondamentale della qualità della relazione nella costruzione del Sé, rilevando come la relazione, a partire da quella madre -bambino, si incarni nel corpo; si è evidenziato quindi l’oramai indiscussa importanza del contatto e della stimolazione tattile per lo sviluppo corporeo, affettivo e cognitivo-comportamentale. Su di loro abbiamo focalizzato la nostra attenzione, per meglio comprenderne il pensiero e le posizioni teoriche.
Infine, abbiamo voluto approfondire l’uso clinico del contatto fisico come intervento terapeutico, con l’obiettivo di cogliere, anche alla luce di specifiche ricerche, le potenzialità e i possibili rischi insiti in questa tecnica.
- La proibizione del contatto fisico in psicanalisi: origini e conseguenze
La psicoanalisi, nei suoi approcci più tradizionali, ha sempre guardato con riluttanza all’uso del contatto fisico come tecnica di intervento terapeutico. Il modello psicanalitico classico considera l’eventualità che un analista possa, nel corso di una seduta, toccare il paziente una trasgressione tecnica dagli inequivocabili effetti negativi. Con il contatto il terapeuta si pone al di fuori dei confini rappresentati da ciò che Merton Gill (1984) aveva definito i criteri intrinseci[1] del metodo psicanalitico: analisi del transfert, neutralità dell’analista, induzione di una nevrosi di transfert e risoluzione di questa nevrosi con la sola tecnica dell’interpretazione.
Il contatto fisico, come azione terapeutica, è distante dalla tecnica dell’interpretazione e con esso la posizione di neutralità dell’analista viene, in un certo senso, indebolita dalla scelta di un canale comunicativo che, rispetto all’interazione verbale, si presenta maggiormente coinvolgente e ricco di implicazioni emotive. Per la psicanalisi il contatto si configura, nel gioco dialettico tra paziente e terapeuta, come un vero e proprio acting out da parte di quest’ultimo, un passaggio all’atto che interferisce con il processo terapeutico, orientandolo verso una gratificazione libidica diretta.
Ancora alla fine degli anni ’50 Menninger (cit. in Pini, 2001 p. 37) scriveva che “la trasgressione della regola contro il contatto fisico costituisce la prova dell’incompetenza e della spietatezza criminale dell’analista”. Affermazione dura e di chiusura radicale da parte del direttore dell’autorevole istituto di ricerca Manninger Foundation il cui tenore, non è difficile supporre, possa aver inibito o quanto meno scoraggiato, all’interno del mondo psicanalitico, ogni possibile dibattito culturale sull’argomento.
Ma quali sono i fattori teorici che hanno condotto ad escludere l’uso del contatto fisico dalla pratica psicoanalitica?
Per il modello psicanalitico “classico”, la neutralità dell’analista salvaguarda il materiale transferale del paziente impedendo che venga contaminato con elementi estranei ai suoi vissuti. Freud aveva indicato nella “regola dello specchio” e nella “regola dell’astinenza” le prescrizioni per garantire la neutralità e tutelare il trattamento. Così si esprimeva a riguardo: “il medico dev’essere opaco per l’analizzato e come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato” (Freud, 1912 p.539). Ed ancora: “il trattamento analitico deve essere condotto, per quanto possibile, in stato di privazione, di astinenza” (Freud, 1918 p.47).
L’atteggiamento non intrusivo e non gratificante dell’analista, secondo i dettami del fondatore della psicanalisi, eviterebbe, pertanto, di offuscare le relazioni transferali del paziente. La frustrazione dei desideri istintuali nevrotici del paziente consentirebbe alle sottostanti spinte pulsionali di manifestarsi nei comportamenti di transfert, ponendo le basi per la loro analizzabilità (Greenson, 1967).
Secondo il principio economico della metapsicologia, ogni pulsione cerca una meta per la sua scarica, liberando il soggetto da uno stato di tensione. In questo senso, la gratificazione delle pulsioni ostacola il ricordare, l’elaborazione verbale e la presa di coscienza, preservando il processo primario a discapito dell’affermarsi del pensiero secondario (Pesce, Piacentini, 2001).
L’atteggiamento neutrale e l’idea che l’analista debba rendersi quasi “anonimo” per non contaminare i vissuti del paziente sono strettamente connessi a una certa concezione “ortodossa” di transfert, in base alla quale si ritiene che il paziente possa rivivere come ripetizione il proprio passato “in modo più o meno puro” (Migone, 1988 p.49), a prescindere dalla situazione reale che caratterizza la relazione terapeutica[2].
Con riferimento a questo modello si assume, pertanto, che il contatto fisico gratifichi i desideri sessuali infantili del paziente (rivissuti come semplice riproduzione del passato e distorsione del presente), determinando una sua fissazione a tali livelli evolutivi (Fosshage, 2000). Il contatto, allora, offrendo un soddisfacimento pulsionale sostitutivo, si configura come “sexual enactment” (ivi p.24) che inficia il lavoro analitico, rendendo impossibile il processo di elaborazione e l’insight. Il contatto, al pari di qualsiasi risposta non interpretativa dell’analista e come deviazione dall’atteggiamento neutrale e di astinenza, “contamina” i contenuti del transfert, precludendo la possibilità di analizzarlo. L’uso del contatto come pratica terapeutica viene, pertanto, rigettato per evitare che l’analista interferisca col processo delle libere associazioni del paziente e con l’induzione del transfert.
Inoltre, la teoria classica psicanalitica, con riferimento al modello motivazionale delle pulsioni sessuali e aggressive, interpreta il contatto solo come espressione di tali spinte pulsionali, escludendo ogni altro tipo di contatto e altri possibili significati (ibidem).
Gli scritti freudiani, in merito ai comportamenti di neutralità, descrivono in generale un clima relazionale di austerità, distacco e rigore. È ben nota la metafora dell’analista chirurgo “che mette da parte la sua simpatia umana, adottando un atteggiamento improntato alla freddezza emotiva” (Greenson, op. cit. p.323).
Questo è quanto divulgato a livello teorico, ma nella pratica, come interagiva realmente Freud con i suoi pazienti?
Greenson (ivi p.179) fa notare come la realtà clinica fosse sensibilmente diversa: “leggendo i casi clinici di Freud non si ha certo l’impressione che l’atmosfera delle sue analisi fosse fredda ed austera”. A questo punto ci si potrebbe chiedere come mai Freud, nei suoi scritti abbia avvertito l’esigenza di cambiare tanto drasticamente la tecnica radicalizzando la descrizione dell’atteggiamento neutrale dell’analista.
Per Greenson possono aver contribuito due ordini di fattori: il primo, per cosi dire, congenito alla tecnica stessa riguarda la “stranezza” e l’”artificiosità” della relazione analista-paziente e la sostanziale novità rispetto alla prassi psicoterapeutica dell’epoca; il secondo si riferisce al pericolo concreto che “gli analisti si lasciassero andare a reagire troppo e ad agire con i pazienti” (ivi p.178).
In questo senso, appare concreta l’idea che il concetto di neutralità possa essere stato divulgato accentuandone per eccesso alcuni suoi aspetti col fine di porre in risalto l’identità del metodo e, allo stesso tempo, tutelare la psicanalisi e i suoi seguaci rispetto alla comunità scientifica dell’epoca. Il rischio, infatti, che gli analisti potessero trovarsi invischiati in particolari coinvolgimenti sentimentali con i loro pazienti, di certo, avrebbe compromesso l’affermarsi del movimento. Non è azzardato sostenere che si trattasse di un’esigenza finalizzata anche a tutelare il pensiero psicanalitico da possibili detrattori.
Non va poi sottovalutata l’atmosfera culturale predominante entro la quale la psicanalisi era nata e si stava diffondendo: “il clima della Vienna fin de siècle, caratterizzato nel contempo dal culto dell’erotismo e della repressione sessuale, rischiava di gettare discredito sulla nascente psicanalisi, vista con sospetto e talvolta con scherno dagli ambienti accademici dell’epoca per aver messo la sessualità al centro della sua indagine clinica” (Pini, 2001, p.39). Alcune critiche al movimento riguardavano il fatto che la psicanalisi infondeva e alimentava nei pazienti idee sulla sessualità piuttosto che permettere di fare emergere elementi concreti di problemi sessuali infantili (McWilliams, 2006).
Ad avvalorare quanto detto finora, Mintz (1969) delinea tre fattori che possono aver contribuito ad innalzare un muro contro l’uso del contatto come pratica terapeutica. Tali fattori possono essere riassunti nel modo seguente.
- In primo luogo, la pressione della morale vittoriana dell’epoca che si ispirava a valori quali la disciplina e l’autocontrollo, specie in fatto di relazioni e costumi sessuali. Con l’enfasi posta da Freud sulle pulsioni sessuali e aggressive nella genesi delle nevrosi, il contatto avrebbe potuto essere facilmente interpretato come seduzione sessuale o aggressione.[3]
- Il secondo fattore fa riferimento al tentativo di affrancarsi dai metodi terapeutici pre-scientifici che basavano gran parte dei loro interventi, compreso l’utilizzo del contatto fisico, sul potere della suggestione. Al contrario Freud stava cercando di proporre la psicanalisi come scienza che si ispirava ai principi della razionalità positivistica.
- Infine, l’abbandono da parte di Freud della tecnica ipnotica la cui pratica prevedeva anche l’uso del contatto fisico. Mentre ipnotizzava, infatti, egli era solito poggiare le mani sulla fronte dei pazienti esercitando delle leggere pressioni.
Con la diffusione della psicanalisi Freud si trovava nella posizione di dover affrontare, o quanto meno arginare, una serie di inconvenienti. Erano sempre più frequenti i casi di persone che, prive di un adeguato training e senza aver svolto un’analisi personale, si fregiavano del titolo di analista. Al tempo stesso, alcuni analisti poco corretti cercavano con la psicanalisi di legittimare la possibilità di avere rapporti sessuali con le loro pazienti (McWilliams op.cit.).
In un clima di questo tipo Freud era sempre più preoccupato che “il suo amato movimento fosse insidiato dalla minaccia della ciarlataneria” (ivi p. 6).
Sul piano istituzionale e pubblico, la ancora giovane psicanalisi, seppur capace di accostarsi alla comprensione dell’animo umano e della società in modo rivoluzionario e demistificante, si trovava, al tempo stesso, nella necessità di costruire una immagine ufficiale rispettabile che la tutelasse da un clima di generale discredito.
Secondo la McWilliams l’importanza posta da Freud sulla “disciplina” e sul “riserbo” dell’analista sono anche il tentativo di arginare le “applicazioni irresponsabili delle sue idee” e di “non fornire argomenti ai critici del movimento psicanalitico” (ivi p.7).
Appare paradossale che la psicanalisi, dopo aver messo in evidenza il ruolo giocato dalla sessualità nella nascita delle nevrosi, si sia dovuta difendere dal fantasma stesso della sessualità vissuto, verosimilmente, in modo incalzante e oppressivo in un clima generale di forti proibizioni sociali.
L’influenza determinata da questo contesto culturale, in relazione alle indicazioni tecniche circa l’atteggiamento neutrale dell’analista, è ancora più evidente se si considera che in una lettera a Jung del 1906 Freud osservava come il trattamento analitico fosse primariamente “una cura attraverso l’amore” (McGuire W. cit. in McWilliams, op.cit. p.13). Appare chiara la contraddizione di Freud che, con molta probabilità, si trovava ad oscillare tra istanze diverse e contrastanti. Da un lato c’era la realtà clinica che poneva in primo piano l’importanza del legame affettivo, dall’altro lato, invece, il livello razionale ed operativo che gli imponeva di descrivere la relazione in modo asettico e neutrale per sistematizzare il metodo, delineandone, in maniera inappuntabile, i parametri tecnici della prassi.
Migone (1995 p.103), affrontando il tema dei principali fattori curativi della psicanalisi, osserva come Freud fosse consapevole che gli aspetti legati alla “comprensione intellettuale”, alla “spiegazione” e alla “argomentazione logica” fossero solo una parte del processo terapeutico. Egli evidenzia come Freud mai “minimizzò l’importanza del legame affettivo tra analista e paziente, non solo, ma spesso sottolineò come la comprensione possa avvenire solo all’interno di un rapporto affettivo favorevole […]”.
L’idea che la relazione analitica implicasse un livello di complessità che andava ben oltre l’atteggiamento neutrale e l’uso dell’interpretazione, in effetti, era ben chiara al fondatore della psicanalisi. In Consigli al medico nel trattamento analitico Freud (1912, p.536) scrive che lo psicanalista “deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso l’inconscio del malato”. In questo modo, egli pone l’enfasi sul fatto che i due membri della coppia terapeutica siano coinvolti ad un livello più ampio e più profondo rispetto all’interazione verbale e che il piano degli affetti, nelle sue componenti inconsapevoli, abbia un ruolo nell’evoluzione del trattamento.
Freud, pur pervenendo a questa consapevolezza, condannò e prese le distanze da Ferenczi, colui che più di tutti in quegli anni, a partire dalle esperienze cliniche, aveva apportato modifiche tecniche sostanziali rispetto al comportamento neutrale dell’analista, mostrando, invece, un profondo interesse per l’Erlebnis (il vissuto esperienziale)[4].
Senza addentrarci nel pensiero di Ferenczi, sarà sufficiente sottolineare come egli fosse approdato a una visione che, discostandosi dall’impostazione tradizionale, poneva al centro della sua elaborazione teorica e tecnica le carenze delle cure parentali ritenute causa dei disturbi psichici e la necessità di un maggiore coinvolgimento affettivo del terapeuta. Questo implicava che l’affettività se non si sostituiva, quanto meno si affiancava all’interpretazione e la neutralità cedeva al coinvolgimento. Così Ferenczi si trovò, nella gestione degli stati regressivi dei suoi pazienti, ad utilizzare il contatto fisico come forma di sostegno e “nutrimento”. Come felicemente citato da Pini (2001, p.42), Ferenczi annotava nel suo Diario Clinico: “l’analisi da sola non è che anatomia intellettuale. Un bambino non può essere guarito con la sola comprensione. Deve essere aiutato dapprima in modo reale, poi consolandolo e quindi risvegliando in lui la speranza”.
La sostanziale chiusura che Freud mostrò nei confronti di Ferenczi non è un episodio isolato.
La storia, anche recente, della psicanalisi è piena di condanne e critiche di autori tacciati come dissidenti.[5]
Negli anni lo sforzo della psicanalisi, e in particolare di quella statunitense[6], di difendere l’unicità del metodo e il suo valore scientifico ha prodotto una generale stagnazione dei percorsi di ricerca e una chiusura verso i nuovi apporti che divergevano dalla tradizione. La psicanalisi si è affannata nel tentativo di ricreare un clima di sostanziale oggettività in cui far prevalere il modello induttivistico della ricerca scientifica (Jervis, 1989). L’atteggiamento generale, che si è protratto per molto tempo, è stato quello di considerare l’interpretazione come fattore esclusivo di cura, eliminando le interferenze “contaminanti” delle variabili emotive.[7] L’ortodossia psicanalitica, generalmente, ha mostrato una certa impermeabilità verso le innovazioni che tendevano a discostarsi dalla tecnica “classica”: atteggiamento neutrale, astinenza, utilizzo del silenzio, uso esclusivo dell’interpretazione verbale con esclusione della componente emotiva della relazione. In molte circostanze le ragioni, come le definisce Migone (op.cit.), sono state “sociali e ideologiche” piuttosto che scientifiche. Il tentativo di differenziarsi da altri approcci psicoterapeutici, che negli anni avevano logorato il monopolio della psicanalisi nella cura dei disturbi psichici, ha condotto ad enfatizzare l’uso dell’interpretazione quale unico mezzo terapeutico, a discapito dei fattori affettivi. Inoltre, lo sforzo di tecnicizzare e sistematizzare, in modo univoco, l’insegnamento della psicoanalisi, sempre più ispirata ad un modello medico oggettivo, ne ha provocato una progressiva destoricizzazione, portando a ”innalzare mostruosamente le tecnica al rango di teoria, come se la prima, ormai vuota e sacralizzata, potesse giustificarsi autonomamente” (Migone, op. cit. p.19). Visibilmente, il movimento psicoanalitico ha finito per chiudersi in un perimetro di autoreferenzialità assoluta, da dove poter valutare ed eventualmente screditare nuovi contributi sia teorici che tecnici. In questo senso, Jervis (op cit. p.54) sottolinea come “le preoccupazioni di credibilità professionale presentate all’esterno come patente di scientificità, e all’interno come costrizione all’ortodossia, si sono rovesciate nel rischio di un serio impoverimento culturale della psicanalisi […]”.
Appare più che reale la possibilità che un clima simile abbia, tra l’altro, seriamente ostacolato l’approfondimento di tutte le implicazioni legate all’uso del contatto fisico, creando un sostanziale rifiuto, protrattosi nel tempo, non solo da parte del mondo psicanalitico, ma anche da parte di altre scuole psicoterapeutiche che non fossero, apertamente, di ispirazione psicocorporea (Fosshage. op. cit.).
È nostra opinione che, sulla questione del contatto fisico, storicamente si sia giocata, sul piano implicito, una partita che è andata ben al di là delle riflessioni teoriche e cliniche; una partita che ha coinvolto posizioni istituzionali ed ideologiche .
Oggi, invece, la transizione dal modello pulsionale intrapsichico al paradigma intersoggettivo, per il quale paziente e terapeuta contribuiscono a definire un campo relazionale di mutua influenza, suggerisce un’ulteriore riflessione sull’utilizzo del contatto fisico come azione terapeutica.
L’infant research, del resto, ha messo in discussione proprio la teoria pulsionale freudiana, rivelandone implicitamente alcune debolezze. In primo luogo, ha mostrato come alla base della motivazione dell’individuo non vi siano esclusivamente due pulsioni (libido e aggressività), come voleva Freud, ma un sistema plurimo di spinte motivazionali (Stern, 1985; Lichtenberg 1989). Il concetto stesso di pulsione, inoltre, è venuto a modificarsi, in quanto essa non è più concepita come pura scarica di tensione, bensì come ricerca dell’oggetto (Bowlby 1969; Harlow 1959).
A tutto ciò si devono aggiungere i dati derivanti della ricerca sulle funzioni neurobiologiche e sul significato psicologico del contatto fisico. Dati che mostrano, in modo sempre più evidente, l’importanza che l’esperienza precoce del contatto riveste nei processi organizzativi delle funzioni psichiche e nello sviluppo della personalità di ciascun individuo.
- L’importanza del contatto nello sviluppo del Sé
È risaputo che Freud sottolineò l’importanza delle sensazioni corporee provenienti dalla superficie del corpo nella formazione dell’Io –L’Io è anzitutto un essere corporeo– e che l’Io cosciente è prima di tutto un Io-corpo (Freud, 1922, pp.39-41). La psicoanalisi iniziò proprio durante un massaggio (che Freud faceva spesso ai pazienti in cura da lui), al quale Freud affiancò la tecnica delle associazioni libere, invece dell’usuale ipnosi. Egli riteneva che il più diretto accesso agli affetti implicasse la manipolazione del corpo e che, quindi, il massaggio facilitasse l’espressione emozionale e la regressione nei pazienti (Downing, 1995 p.327). Come già anticipato nel primo capitolo, Freud dismise la tecnica del massaggio; mise progressivamente da parte la relazione mente corpo, operando una radicale frattura fra le parti ed abbandonando il corpo alla biologia (sebbene tutto il suo lavoro ne sia ricco di riferimenti). La scelta fatta da Freud non dovrebbe stupire se si pensa che la riflessione sui rapporti tra corpo ed anima (Psyche) copre l’intero arco della storia della filosofia[8] e che due fra i più importanti esponenti (Platone e Cartesio) hanno favorito decisivi strappi a questa unità psicofisica. Tale dicotomia sembra, però, non aver influenzato Groddeck[9], il quale non ha mai smesso di utilizzare i massaggi nell’ambito della psicoterapia. Groddeck, già nel 1913, non solo sosteneva il concetto di “unità mente(anima)-corpo”, ma, in un approccio più olistico/sistemico, riteneva inseparabile l’individuo dal resto del mondo (Groddeck, 1913, 1929).
Tali avanzamenti e arretramenti relativi al continuum mente-corpo-relazione rispecchiano una forte tendenza a mantenere nettamente separati tali aspetti. È a partire dagli anni ’50 circa (con Spitz, Harlow e Bowlby), che in psicologia si affermano dei tentativi di superamento di questa separazione. In particolare, l’impatto sull’infante della privazione del contatto con la madre e l’importanza di questo ‘nutrimento’ per l’esistenza stessa del piccolo sono stati studiati in maniera sistematica da Spitz[10] (1952) il quale ha osservato, in bambini di circa un anno cronicamente separati dalla madre (ospedalizzati o in orfanotrofio), l’insorgere di una sindrome, definita depressione anaclitica, caratterizzata da un crollo psichico e somatico.
In altri termini, una carenza-deprivazione di stimolazioni sensoriali al neonato attraverso il tatto, il movimento corporeo, l’odore, il gusto e l’allattamento al seno, impedisce (od ostacola) il legame madre-neonato inducendo determinati disordini emotivo-comportamentali e rallentando molte delle sue funzioni vitali, dal battito cardiaco alla respirazione, fino alla produzione di ormone della crescita. In tali condizioni di deprivazione somatica ed affettiva, i bambini sviluppano delle soluzioni patologiche, soluzioni ad un buco sperimentato quando ancora il soggetto non si è costituito come tale; gravi carenze affettive, intellettive e sociali quali: comportamenti stereotipati di ricerca di stimoli (dondolamenti, succhiamento del pollice), evitamento tattile, percezioni alterate di dolore e piacere, comportamenti anti-sociali, depressione. Spesso i danni della deprivazione iniziale lasciano buchi incolmabili, nonostante interventi di recupero.
In linea generale, se dai risultati degli studi di Spitz si può intravedere un tenue viraggio dal modello conflittuale ad una psicopatologia basata sulle carenze e sui traumi, i risultati dei noti esperimenti di Harlow (Pini 2001, p.120) sul contatto fisico nelle scimmie rhesus comprovano che il bisogno di contatto è un bisogno primario, indipendente dalla gratificazione dei bisogni fisiologici di tradizione psicoanalitica (una ricerca di contatto, di conforto e di protezione, più che di nutrimento, di scarica della libido e di pulizia) ed avvalorano l’importanza del contatto fisico per la costruzione ed il mantenimento del legame di attaccamento, approfondito da Bowlby. Si può ragionevolmente ritenere che Bowlby (1969/1988) con tale paradigma abbia revisionato la teoria freudiana delle pulsioni individuando nell’attaccamento un sistema motivazionale separato dalla sessualità, dando in tal modo il primato etiologico dello sviluppo umano alla qualità affettiva delle originarie relazioni e non più alle vicissitudini del soddisfacimento pulsionale[11].
Il tema del contatto fisico diventa sempre più oggetto d’interesse in particolare per la corrente delle relazioni oggettuali, ma anche dell’infant research, che pongono una certa enfasi sulle questioni pre-edipiche e sulla precoce interazione madre\bambino.
Winnicott afferma che, all’inizio della vita, il bambino esiste solo in quanto parte di una relazione e le sue possibilità di vivere e svilupparsi dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia quel senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita (Winnicott, 1971. p.175 sgg.).
Tali cure, che Winnicott riassume principalmente nei concetti di holding ed handling ripetute nel tempo favoriscono l’integrazione dell’infante e promuovono nel bambino l’esperienza dei propri confini corporei e la costruzione di un’immagine di Sé (Winnicott, 2004 p.14). Sarà, quindi, proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto il caregiver sarà disponibile, protettivo, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé, un Sé corporeo e intersoggettivo.
Ed ancora, in questo bellissimo passo, l’autore afferma:
“(…) ora, a un certo punto, viene il momento in cui il bambino si guarda intorno. (…) Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me, di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge” (Winnicott, 1971. p. 177).
Winnicott riconosce fra i due una sola unità psicosomatica.
Anche il bambino che emerge dalle ricerche sperimentali di Stern (1985) è parte di un sistema interazionale, risultato della costruzione attiva da parte del bambino di rappresentazioni di relazioni con ” altri regolatori del Sé” (idem p.113 sgg.), e tali processi interattivi di natura sociale fra madre e bambino rappresentano il prototipo per i successivi scambi interpersonali. Madre e bambino mantengono attiva l’interazione ed eseguono mosse e sequenze modellate sul passo dell’altro. Attraverso questa danza interattiva madre-bambino, il senso del sé, questa esperienza soggettiva organizzante, si viene formando[12], dando coerenza e continuità all’esperienza del bambino attraverso l’integrazione di percezioni e affetti, sistemi motivazionali e rappresentazioni. Grazie, quindi, alla sintonizzazione affettiva madre-bambino, è possibile la formazione (o l’inibizione della formazione) degli schemi affettivo-motori di “essere con”(idem p.150 sgg.; 244 sgg.).
Il senso di Sé si forma, quindi, nel rapporto con l’altro.
L’immagine che ognuno ha di se stesso si costruisce sulla base della relazione con gli altri significativi, sulla base dell’immagine che questi altri ci rimandano di noi.
Kohut considera il rispecchiamento empatico un bisogno universale dello sviluppo il cui adeguato soddisfacimento viene ritenuto necessario per la formazione di un Sé coeso. “Nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed è in contatto con lui (attraverso canali tattili, olfattivi e propriocettivi, nutrendolo, portandolo in braccio, facendogli il bagno) ha inizio virtualmente un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé della persona, processo che continua durante tutta l’infanzia e in misura minore durante tutta la vita” (Kohut, 1977 p.100)
Il corpo è quindi il primo veicolo di comunicazione e relazione affettiva del nostro Sè con il mondo. “Il vivente funziona non solo prima e al di là del linguaggio parlato[13]; esso ha anche forme espressive motorie proprie che non sono affatto afferrabili con le parole” [corsivo dell’autore] (Reich, 1933. p.441)[14].
Altre forme espressive non afferrabili con le parole sono tutte quelle modalità di reazioni emozionali quasi automatiche che vengono messe in atto senza adeguate capacità rappresentative, simboliche, quindi senza la possibilità di attivare una funzione riflessiva (propria dei processi corticali) rispetto a ciò che sta avvenendo. “Operano fuori del dominio dell’attenzione focalizzata e dell’esperienza che può venire verbalizzata.” (Schore, 2003. p.20). Sono, per esempio, quei comportamenti emotivi appresi nella relazione madre-bambino in epoche in cui le comunicazioni sono corporee, in cui la funzione della memoria rappresentativa-dichiarativa non era ancora sviluppata; tali comportamenti sono stati pertanto fissati nella memoria implicita o procedurale e in futuro, in determinate condizioni, come per esempio in terapia, un contatto fisico può far riemergere in maniera potente. “Pure il Sé implicito – sostiene Schore – ha origini intersoggettive” (ibidem).
A partire da queste strette relazioni psicosomatiche fra il corpo e la psiche del bambino e la mente ed il corpo della madre, i rapporti umani si incarnano…
“(…) Egli in-corpora i legami che vengono stabiliti con lui, e che diverranno la base della relazione che lui avrà con se stesso (…) Il bambino non incorpora solo il latte – che diventerà sostanza per il proprio corpo- sta anche incorporando un certo modo di relazionarsi al mondo (…)”(Boschan, 2008, pp.30-31).
Il bambino piccolo ha quindi bisogno del contatto fisico con la madre, così come ha bisogno del cibo e dell’aria (Lowen, 1985 p.128); l’epidermide é il nostro mezzo di espressione più apparente, essendo il più esteso organo di senso dell’intero corpo. Essa svolge inoltre una funzione di confine fra esterno ed interno e consente lo sviluppo della funzione di individuazione del Sé[15], che permette al bambino il sentimento di essere un essere unico (Anzieu, 1985, p.130). Il bambino ha inoltre bisogno di apprendere, attraverso il tatto (carezze, coccole ecc) cosa significhino l’intimità, la prossimità, la distanza e il distacco (Montagu, 1971 p. 188 sgg). L’identità personale ha una sostanza ed una struttura soltanto fino a quando è basata sulla realtà di sensazioni corporee; di conseguenza una perdita di contatto con il corpo porta ad una perdita di contatto con la realtà (Lowen, 1967, p.10 sgg.).
Viene quindi avvalorato da questi autori come il senso di Sé emerga da una intersoggettività primaria corporea.
Oggi abbiamo a disposizione numerosi dati frutto di osservazioni, realizzate con sofisticate video riprese, delle interazioni primarie madre-bambino che hanno centrato l’attenzione sulle complesse dinamiche diadiche regolate da micro movimenti corporei e hanno ampliato le nostre conoscenze sulle competenze insospettate dei bambini (Beebe e Lachmann, 2002; Schore, 2003; Tronick, 2008). Il susseguirsi di scambi di sguardi, di contatti diretti, di interazioni faccia-a-faccia (che avvengono nel regno dell’implicito, parallelo a quello dei contenuti), pone le basi per la personalità futura del soggetto, per la sua modalità relazionale ed in una certa misura per il suo funzionamento neurologico.
Tali osservazioni evidenziano un bambino attivo e precocemente predisposto a creare e mantenere relazioni con il mondo esterno e capace di regolare autonomamente il proprio coinvolgimento. Quindi, a partire dalla responsività materna nei confronti dei messaggi comunicativi del figlio ed alla sua capacità di sintonizzazione affettiva, l’interazione viene successivamente considerata come un processo di influenze reciproche, una co-costruzione della diade fatta di regolazione interattiva e autoregolazione che si intrecciano in uno scambio continuo e complementare (Beebe e Lachmann, 2002, p.97 sgg. Schore, 2003 p.38 sgg.).
Tale esperienza primaria interattiva, o processo di mutua regolazione affettiva, mette in atto forme di aggiustamento (della durata, della forma e dell’intensità) delle proprie espressioni emotive e comportamentali, dando modo, in occasione di scambi non coordinati, di attivare comportamenti di riparazione.
Il buon coordinamento prevede proprio una certa dose di disconnessioni (o rotture riferibili ad errori interattivi) e riparazioni all’interno della diade, in quanto gli aggiustamenti che vengono abbozzati (le nuove possibilità relazionali) diventano, per il bambino, occasioni uniche di apprendimento socio-emozionale con conseguenze notevoli sullo sviluppo di un senso di Sè integro. Il bambino in tal modo impara a regolare contemporaneamente il proprio stato emozionale ed il grado del suo coinvolgimento nelle attività con l’esterno.
L’alternarsi di fasi di connessioni, rotture e riparazioni è insito nel modo di svolgersi di qualsiasi processo co-creativo[16], che produce forme uniche di stare insieme: forme perfette di relazione non sono possibili, né, tanto meno, auspicabili in quanto non porterebbero al cambiamento, alla crescita, all’evoluzione (Tronick, 2008 p.64 sgg. p.279 sgg.).
Questo delicato momento dello sviluppo è stato oggetto di numerosi studi anche nel campo neurobiologico. Nell’ultimo trentennio, la ricerca nell’ambito delle neuroscienze si è sviluppata ininterrottamente intraprendendo un percorso di avanzamento in direzione di una sempre più forte interconnessione tra lo psichico e il biologico[17].
Una parte sempre più rilevante delle neuroscienze ritiene che il cervello sia un organo plastico e aperto alle esperienze, capace di assumere diverse connotazioni strutturali e funzionali, a seconda delle basi genetiche ed esperenziali che caratterizzano la singola persona. Ciò significa, per esempio, che le esperienze possono avere effetti diretti sui processi che portano allo sviluppo dei circuiti neuronali, inducendo la formazione di nuove connessioni sinaptiche, modificando quelle preesistenti o favorendone l’eliminazione (Kandel, 2009, pp. 312sgg.)[18].
Recenti evidenze empiriche hanno messo in luce il ruolo che il contatto fisico primario può rivestire nella vita emozionale.
In particolare, un gruppo di ricercatori della McGill University ha individuato i meccanismi molecolari -di carattere epigenetico- che sottostanno alla correlazione tra una grave carenza di attenzioni parentali e lo sviluppo di disturbi mentali[19]. Questi risultati suggeriscono che l’ambiente del periodo iniziale della vita può determinare cambiamenti molecolari che influenzano l’attività cerebrale e che possono, a loro volta, determinare una predisposizione a disturbi mentali (Tie-Yuan Zhang et al. 2010).
In sintesi, se il filone di ricerche della psicologia clinica e dell’infant research tende a confermare l’importanza del contatto e della relazione nello sviluppo del bambino più dal punto di vista affettivo e cognitivo/comportamentale, le neuroscienze tendono a confermare l’importanza dell’ambiente (del contatto e della relazione) nei cambiamenti sia chimici, che epigenetici del cervello e delle strutture nervose.
- Il contatto fisico in psicoterapia
Come anticipato nel primo capitolo, gli ultimi quaranta anni delle concettualizzazioni psicodinamiche sono stati contrassegnati da un revisionismo più sistematico che ha caratterizzato il passaggio dal modello pulsionale legato al conflitto intrapsichico a quello interpersonale nel quale paziente e terapeuta partecipano attivamente alla strutturazione del loro spazio relazionale. Con riferimento a quest’ultima teoria, qualsiasi cosa il terapeuta scelga di fare o non fare, di dire o non dire, influisce sull’esperienza stessa che il paziente ha della relazione analitica. Pertanto anche l’atteggiamento neutrale del terapeuta diviene una forma di azione terapeutica che assume molteplici significati e che interviene, in vario modo, sulla risposta di transfert del paziente.
Dismesso il mito illusorio del “blank screen” (Fosshage, 1995 p.375) il terapeuta si ritrova nell’impossibilità di assumere posizioni prive di implicazioni.
In teoria la neutralità esprime la volontà di non fare nulla che possa influenzare il vissuto del paziente, nella pratica essa non può sottrarsi alla tendenza naturale di attribuire significati a qualsiasi cosa accade durante la relazione. L’idea di un paziente passivo che non valuta e soppesa il proprio terapeuta e che accetta passivamente i suoi interventi è contraddetta da ciò che il costruttivismo ha provato a insegnarci negli ultimi cinquanta anni. Lo spazio terapeutico diviene, allora, un campo comune che finisce per essere influenzato e per influenzare, a sua volta, l’esperienza, sia del paziente che del terapeuta. Pur optando per il più impersonale degli atteggiamenti, coerentemente con una precisa scelta tecnica, il terapeuta si ritrova ad agire consapevolmente un comportamento che comunque veicola un significato per il paziente. In una prospettiva interpersonale, la posizione neutrale e distaccata non è nient’affatto neutra; nella stanza d’analisi essa si riempie di senso ed acquista un peso specifico che cambierà, da caso a caso e da un paziente all’altro. In questo modo decade l’assunto che il terapeuta, sul piano clinico, abbia concretamente la possibilità di astenersi dal compiere azioni; ogni sua posizione, anche la più silenziosa e attendista avrà lo status di azione.
Pertanto se l’azione terapeutica è correlata al fare, ma è, al tempo stesso, sorretta anche dal non-fare, ne consegue che, in sé, l’agire viene meno come categoria concettuale esplicativa e non permette più di capire quali siano i comportamenti ammessi o da rifiutare. Sulla base del paradigma interpersonale non esistono, allora, comportamenti che si pongono al di fuori dello spazio delimitato dalla relazione terapeutica, in quanto ciascun comportamento o atteggiamento contribuisce a costruire la relazione stessa.
L’uso del contatto fisico e, più in generale, delle tecniche corporee segnano “[…] irrevocabilmente il superamento di una certa linea di demarcazione” (Downing, 1995, p.75) con importanti implicazioni sul setting terapeutico e sulle risposte transferali del paziente che non possono essere sottovalutate o date per scontato. Non è più possibile affermare, tuttavia, che una teoria della tecnica che suggerisce un atteggiamento distaccato e il divieto imperativo dell’uso del contatto possa garantire uno spazio terapeutico incontaminato, privo di implicazioni rispetto al transfert[20] e all’esperienza che il paziente fa della relazione.
Ogni scelta tecnica del terapeuta non può che essere soppesata all’interno della relazione e valutata rispetto alla sua capacità di sostenere o al contrario ostacolare il processo terapeutico del paziente. È ben noto che l’interpretazione possa essere usata, ad esempio, in modo difensivo e quindi risultare controproducente per il paziente. Allo stesso tempo anche una tecnica corporea di contatto può prescindere dai reali bisogni del paziente e limitare il processo di cura.
Le seguenti parole di Fosshage (2000, p.25), psicanalista relazionale, più volte citato in questo lavoro, sottolineano bene come il contatto fisico possa iniziare ad essere considerato un potenziale tipo di intervento il cui valore sia riconosciuto anche da scuole di pensiero con una impostazione non specificatamente psicocorporea: “riconoscere che l’analista contribuisce in vario modo all’esperienza transferale dell’analizzato, ci rende assai più consapevoli delle sottili e complesse implicazioni della comunicazione verbale e non verbale che hanno luogo nello spazio analitico. In conclusione, questo ci dà l’opportunità di considerare un vasto assortimento di interventi, incluso il contatto, che possono o meno rappresentare una facilitazione”. [21]
In base a queste premesse, ciò che ci preme porre in evidenza in questo capitolo sono alcune considerazioni generali e introduttive sull’uso del contatto fisico, per contribuire a stimolare la riflessione sull’argomento e provare a descrivere come tale azione terapeutica possa rappresentare una scelta tecnica percorribile e potenzialmente valida.
Varie e complesse sono le funzioni che il contatto riveste in momenti diversi della relazione terapeutica. In questo contesto abbiamo scelto di soffermarci, in primo luogo, su due ampie tipologie. A tal fine prendiamo in prestito i termini utilizzati da Malcom Brown (1990, 2001): il contatto catalitico e il contatto nutritivo.
Il contatto catalitico, come suggerisce il verbo greco Καταλύειν, letteralmente sciogliere, dissolvere, è finalizzato appunto al dissolvimento della corazza carattero-muscolare per mezzo di un contatto diretto che viene esercitato su alcuni gruppi muscolari cronicamente tesi. Il terapeuta interviene attivamente con le sue mani applicando una pressione su alcuni muscoli del corpo del paziente per ridurne la contrazione e la spasticità. Si tratta di un tipo di contatto, tradizionalmente utilizzato dalle scuole di impostazione neoreichiana e analitico bioenergetica, basato sul modello energetico “tensione-carica-scarica-rilassamento” che tende ad attuare una liberazione catartica di affetto.
Ricordiamo che per Reich (1933, 1942) così come per Lowen (1956, 1975) la salute fisica e psicologica di ciascun individuo dipende dal libero fluire di un’energia psicocorporea (“energia orgonica” per Reich, “bioenergia” per Lowen). In risposta a emozioni spiacevoli (paura, dolore, ansia, angoscia, rabbia), vissute in particolare durante l’infanzia, la persona reagisce difensivamente attraverso un irrigidimento di alcuni muscoli (diaframma, nuca, spalle, mandibola, ecc). Nel loro insieme questi blocchi muscolari formano una corazza difensiva che impedisce la libera circolazione dell’energia. Per Reich lo scopo principale della terapia era quello di rimuovere tali blocchi per consentire all’energia di fluire liberamente. Egli con i suoi pazienti interveniva in questa direzione, effettuando abitualmente lavori di manipolazione diretta esercitata sugli strati più profondi del tessuto muscolare e connettivo[22].
Anche Lowen utilizzava con i suoi pazienti questo contatto per sciogliere i muscoli contratti, consapevole di come l’irrigidimento muscolare fosse al servizio della rimozione emozionale e della difesa caratteriale.
Per l’analisi bioenergetica “ogni disturbo emozionale è una riduzione della motilità” (Lowen, 1956 p.98). Un impulso emotivo vissuto in maniera conflittuale può essere represso attraverso il controllo dell’Io sulla muscolatura volontaria. La spasticità cronica impedisce la libera espressione di un sentimento e, allo stesso tempo, consente di non percepire più il sentimento stesso.
Pertanto, questo tipo di contatto può contribuire al recupero della motilità e a fare riaffiorare sentimenti repressi legati ad esperienze conflittuali rimosse[23]. Sbloccando le capacità espressive l’individuo migliora, non solo la “capacità di prendersi direttamente dal mondo il piacere” (Lowen, 1975 p.125), ma crea anche i presupposti per poter sperimentare un senso generale di appagamento e benessere.
Possono rientrare in questa tipologia di contatto anche le “tecniche di pressione” e le “tecniche di rimodellamento”, o manipolazione corporea, che Downing (1995) descrive, fra le altre tecniche di lavoro con il corpo, nella sua famosa opera di integrazione fra corpo e parola. Downing specifica che l’origine di queste tecniche da lui trattate è “puramente corporea” (pp.77-78), non intendendo con tale precisazione escludere implicitamente aspetti o effetti mentali e psichici, bensì chiarire che sono nate al di fuori del campo psicoterapeutico e successivamente utilizzate in tale ambito. Le “tecniche di pressione” (rolfing, shiatsu e terapia delle polarità), sebbene con conseguenze talvolta non prive di dolore, producono una rapida decontrazione-rilassamento dei tessuti rigidi e nodosi, che vengono trattati tramite pressioni energiche e localizzate effettuate con i pollici, le nocche o persino il gomito (idem.p.82). Le “tecniche di rimodellamento” (il metodo Feldenkreis, il metodo Alexander) consistono in una manipolazione del corpo mirata ad attenuare le tensioni muscolari; determinate parti del corpo vengono spostate, sollevate, piegate, ecc. lentamente e dolcemente sulla base di schemi motori fisiologici, allentando in tal modo la compressione cronica del tessuto. Tali movimenti, ripetuti diverse volte nel corso del tempo, tramite sensazioni propriocettive e cinestetiche, stimolano e riorganizzano il sistema nervoso, producendo, quindi, un riapprendimento di nuovi schemi (idem. pp.79-81).
Sulla base di quanto evidenziato fino ad ora, appare chiaro che questo tipo di contatto abbia come modello teorico di riferimento il paradigma pulsionale. Modello all’interno del quale il conflitto, sorretto da una difesa psico-corporea, blocca la scarica della pulsione e il soddisfacimento del desiderio. Il rischio principale di questa impostazione è quello di procedere con una prospettiva troppo meccanicistica. La priorità posta sullo scioglimento delle tensioni muscolari potrebbe mettere, infatti, il paziente in una posizione passiva e desoggettivizzante[24].
La seconda tipologia riguarda il contatto nutritivo, meno intrusivo di quello catalitico, “mira a indurre uno stato di rilassamento e a stimolare la consapevolezza del corpo e delle emozioni ad esso associate” (Pini, op. cit. p.24). Questo tipo di contatto (utilizzato non solo da Lowen e dai suoi eredi, ma da diversi esponenti contemporanei della psicoterapia a mediazione corporea, fra cui lo stesso Brown), viene dato ponendo la mano su determinate parti del corpo del paziente, con una leggera pressione e senza movimento, e può avere diverse funzioni, a partire da quella basilare di facilitare la respirazione del paziente. Può favorire la consapevolezza delle sensazioni propriocettive e la loro relazione con l’esperienza affettiva. Attraverso il contatto corporeo diviene possibile il concretizzarsi dell’esperienza del percepirsi interi; può servire, quindi, per costruire i confini del Sé, in particolare per il paziente che si trova in uno stato di confusione interna (cfr. Pini. op.cit. pp.37sgg.). Con il contatto, il terapeuta permette al paziente di contenere gli impulsi e di regolarne il ritmo, la durata e l’intensità; il paziente apprenderà gradualmente tali modalità di autoregolazione dei propri stati interni.
Tale tecnica può fornire, inoltre, sostegno, supporto e contenimento rafforzando i presupposti per la costruzione di un holding environment. In questo modo, si può riuscire con maggiore efficacia a comunicare al paziente “che un’altra persona è presente ed è sintonizzata con la sua esperienza” (Downing, op.cit. p. 237).
Inoltre, può, favorire l’allentamento delle difese psichiche e indurre una maggiore apertura, stimolando nel paziente una certa disponibilità alla condivisione delle proprie esperienze e dei propri vissuti; in tal modo può esserne rinforzata anche la relazione terapeutica. La funzione di rilassamento del contatto può facilitare nel paziente l’emergere di nuovi vissuti che potranno portare ulteriori apprendimenti o favorire il processo di riparazione.
Il contatto nutritivo, diversamente da quello catalitico, trova, invece, coerenza teorica nel modello relazionale, che vede impegnati paziente e terapeuta nella co-creazione di una relazione interpersonale ed intersoggettiva; un paziente meno passivo e più partecipe alla costruzione del significato che il contatto può assumere nel processo terapeutico.
A prescindere dalle tipologie sopra indicate, il contatto può favorire l’esplorazione dell’esperienza pre-verbale del paziente, facendo dapprima emergere antichi schemi affettivo-motori, per poi ripristinare il loro sviluppo e la loro funzionalità per mezzo di interventi adeguati. Una spiegazione a ciò è data dal fatto che nei primi 18-24 mesi di vita del bambino, non si è ancora ultimato lo sviluppo delle strutture anatomo-fisiologiche del sistema nervoso centrale e delle relative funzioni coinvolte nei processi mnestici e cognitivi[25]. Non vi è quindi possibilità di ricordare eventi tramite immagini e di dare parola ai ricordi. Di conseguenza, in questo periodo di vita del bambino, caratterizzato da significative costellazioni sensoriali, toniche, affettive e comportamentali nell’ambito della diade, in particolare, con la madre, tali esperienze restano impresse nella memoria procedurale o implicita[26]. È una memoria, pertanto, strettamente correlata alle condizioni in cui ha avuto luogo l’esperienza e si instaura lentamente, a seguito di situazioni reiterate; si esprime soprattutto sottoforma di comportamenti, senza un corrispettivo rappresentazionale, e di schemi emozionali tendenti a ripetersi nel tempo (Correale. 2002). La memoria implicita non dipende direttamente da processi consci, quindi il suo ricordo non implica una ricerca consapevole delle tracce mnestiche; la chiave che permette di accedere a questa costellazione di ricordi è da ricercare essa stessa nel regno dell’implicito, del preverbale, dell’esperienza corporea [27].
Downing chiama queste particolari costellazioni di ricordi cinogrammi: “Il contatto nel lavoro psicocorporeo è uno strumento estremamente potente […]. Spesso il passato, soprattutto preverbale e preedipico, incorporato in un cinogramma motorio emerge grazie al lavoro corporeo provocando, quindi, un maggior contatto con il passato stesso” (Downing op.cit. p.285).
Un ampio contributo, sia teorico che empirico, riguardo la valenza terapeutica del contatto è offerto da un volume di Smith, Clance e Imes della Georgia University sul contatto corporeo in psicoterapia (1998). Fra i lavori citati nel testo, lo studio condotto da Gelb ha permesso di identificare una serie di fattori correlati ad una valutazione positiva del contatto da parte dei pazienti. Sinteticamente il lavoro mostra come l’esperienza risulta essere integrabile: quando vi è chiarezza di comunicazione riguardo al contatto, ai sentimenti sessuali ed ai confini della terapia; quando il paziente è consapevole di poter iniziare e/o interrompere in ogni momento il contatto; quando il contatto è congruente con il livello di intimità presente nella relazione terapeutica, con i bisogni percepiti del paziente e con le sue problematiche; quando sia il terapeuta che il paziente sono aperti nel discutere relativamente al contatto e ai sentimenti presenti; quando è chiara la necessità terapeutica.
Un altro interessante studio è quello condotto da Horton et al. (1995) su un campione[28] di pazienti che insieme ai loro terapeuti avevano avuto esperienze di contatto all’interno del setting. Tale lavoro ha confermato i fattori individuati nel precedente studio di Gelb e ha posto in evidenza, in particolare, come il contatto debba essere congruente con il livello di intimità della coppia terapeutica. Circa il 70% dei pazienti coinvolti nello studio, riportava che il contatto aveva alimentato un forte legame con il terapeuta e ne aveva intensificato la vicinanza, favorendo l’emergere di sentimenti di apertura e fiducia. Per la metà del campione, inoltre, il contatto aveva comunicato un maggiore senso di accettazione e potenziato i vissuti di autostima. Gli autori giungono alla conclusione che il contatto non interferisce necessariamente con la motivazione del paziente al lavoro terapeutico, e che esso può alleviare la vergogna, aiutare a tollerare il dolore, velocizzare l’esplorazione di alcune tematiche, consentendo di raggiungere livelli emotivi più profondi.
Il valore terapeutico di questo strumento, così difficile da gestire, non deve tuttavia far perdere di vista i rischi insiti in un uso improprio dello stesso, dei quali sono ben consapevoli anche i fautori del contatto.
Brown sostiene che il contatto[29], in particolare quello catalitico, può essere negativo per il paziente in quanto può provocare “disordini emozionali e perfino dolore fisico” se impiegato in modo invasivo per forzare le difese del paziente ed allentare la corazza carattero-muscolare. Il contatto potrebbe quindi attivare processi, psicologi e fisiologici, con tale rapidità ed impeto da risultare eccessivi per l’integrazione. Si perverrebbe in tal modo ad un risultato opposto, in quanto le difese si riaffermerebbero attraverso un “imponente movimento contro fobico” tale da minare la relazione terapeutica (Brown 2001 op.cit.p.58).
Downing, che si muove con molta cautela nei confronti delle tecniche basate sul contatto cosiddetto catalitico, nelle quali vede una certa aggressività, ma anche un rischio di dipendenza dall’esplosione catartica (Downing, p.77), relativamente al secondo tipo di contatto, mette in guardia i terapeuti dalle strategie, consapevoli o meno, agite dagli stessi tramite un contatto: “Nel lavoro con il corpo può essere anche troppo facile, se il terapeuta lo vuole, sistemare le cose in modo che, con una certa costanza e regolarità, alla fine della seduta il paziente si senta bene. Abbracci e sorrisi; frequenti esortazioni alla vitalità del corpo; ricompense non verbali, a seduta inoltrata, per i resoconti sugli stati piacevoli, ma non per gli altri; abuso del contatto fisico di sostegno. (…) Per quanto effettuati con le migliori intenzioni, questi interventi non recano beneficio. Il vero compito del terapeuta è semplicemente aiutare il paziente a rivelare ciò che in quel momento ha dentro di sé (sensazioni di piacere o dolore, di vitalità o esaurimento, e via dicendo) e poi fargli lasciare la seduta con quei sentimenti che continuano dentro di lui” (1995, p.322).
Lo stesso Lowen insiste sulla qualità del tocco, che deve essere caldo e poter ispirare fiducia al paziente; ma, qualora dovessero intervenire i sentimenti[30] del terapeuta, che è, e rimane, un essere umano…“Se questo succede, non deve toccare il paziente” . (Lowen. 2000, p.79)
Un aspetto non trascurabile, quando ci si serve del contatto fisico in terapia, riguarda, infatti, la sessualità, sia per quanto concerne le risposte transferali che controtransferali. Un canale comunicativo così forte e coinvolgente può suscitare, in effetti, l’emergere di sentimenti erotici e sessuali, tanto nel paziente che nel terapeuta. Può accadere che nel paziente il contatto evochi degli echi sessuali: egli può temere che il lavoro di contatto sfoci in un rapporto sessuale o, al contrario, desiderare di avere un rapporto sessuale con il proprio analista. Si tratta, in entrambi i casi, di vissuti ai quali il terapeuta deve prestare molta attenzione, cercando di cogliere ogni indizio; l’eventualità che restino inesplorati, di certo, non giova al processo terapeutico. Nel primo caso il timore, se non viene riconosciuto, può rappresentare una vera minaccia per il lavoro terapeutico, poiché rischia di esporre il paziente ad una angoscia intollerabile che può, ad esempio, sfociare nell’abbandono prematuro della terapia. Il desiderio, invece, può svolgere una funzione difensiva, proteggendo il paziente dallo sperimentare sentimenti teneri di bisogno e sostegno, sentimenti che lo porrebbero in una posizione insostenibile di dipendenza e vulnerabilità. Il desiderio sessuale potrebbe, inoltre, avere la funzione di coprire vissuti depressivi e di vuoto.
Occorre, inoltre, prestare attenzione ad un ulteriore aspetto; vale a dire al fatto che il paziente possa sperimentare sentimenti sessuali che egli reputa inaccettabili; impulsi che ai suoi occhi alterano il livello affettivo della relazione. Il paziente, ad esempio, può provare vergogna e senso di colpa, temendo di aver tradito il terapeuta, nel momento in cui comprende che le intenzioni di questi erano finalizzate a fornirgli sostegno e accudimento e non stimoli sessuali. In un altro caso può sviluppare vissuti di rabbia e aggressività verso il terapeuta per essersi sentito “provocato” e indotto a sperimentare determinate emozioni.
È importante che il terapeuta sia ben consapevole del suo controtransfert e che sia in grado di contenere e non agire eventuali sentimenti di natura sessuale. La possibilità che egli non sia conscio dei suoi sentimenti erotici può “sporcare” la qualità del contatto, veicolando un messaggio ambiguo e confusivo per il paziente. Come afferma Malcolm Brown (Pini, op cit, p.225) il terapeuta “può permettersi di accettare la sensazione e nel contempo controllare il comportamento”, nel rispetto di un atteggiamento etico e deontologicamente corretto. In ogni caso, la comparsa di tali sentimenti deve essere un campanello di allarme per il terapeuta il quale si dovrà interrogare sul loro senso e su come tali vissuti intervengono nel rapporto con il paziente.
Si comprende, quindi, come le opinioni in proposito al valore terapeutico del contatto, al di là dell’approccio teorico di riferimento, siano diverse[31]; il contatto può rilevarsi utile per un paziente e dannoso per un altro, ma anche per lo stesso paziente può rivelarsi adeguato in una certa fase della terapia e inadeguato in un’altra.
Basti pensare, per esempio, alla questione controversa dell’uso del contatto fisico anche nell’ambito di un tema grave come quello di soggetti che hanno subito abusi sessuali o violenze fisiche. Dai risultati di ricerche (Westland, 1993; Piers, 1998; cit. in Pini, p.42) su tale argomento finora non è stato possibile trarre conclusioni definitive in quanto “la valutazione della tecnica di trattamento è connessa a diversi elementi quali le caratteristiche del paziente, le circostanze in cui a avvenuto il trauma o il disturbo psichico in atto”(ibidem)[32].
In realtà, la natura e la complessità di questa particolare esperienza traumatica non consente di avere una posizione univoca. Il contatto, ad esempio, può rappresentare per questi pazienti una buona opportunità per sperimentare nuove emozioni. Il paziente abusato che costruisce con il suo terapeuta i presupposti relazionali per lavorare con il contatto fisico può aprirsi ad una nuova intimità. L’ambiente sicuro e protetto della terapia pone il paziente nelle condizioni di depurare la fisicità dall’ombra inquinante della sessualità, della violenza e della prevaricazione. Riscoprire mediante il contatto come sia possibile vivere un’intimità fisica diversa da quella sessuale; riappropiarsi, in altre parole, di un corpo violato, spesso fonte di vergogna e colpa.
In modo diametralmente opposto il contatto, qualora venga usato senza avere considerato l’unicità della storia di vita di ciascun paziente, può essere vissuto quale ulteriore prevaricazione e violenza che riattualizza l’esperienza traumatica.
Questi aspetti contrastanti contribuiscono ad innalzare il livello di responsabilità e a sottolineare l’importanza di prestare attenzione a una serie di ulteriori fattori.
Fermo restando il divieto di qualsiasi contatto sessuale, incluso il contatto delle zone erogene e/o sessuali di paziente e terapeuta, i1 contatto diretto in genere è ritenuto inappropriato da diversi autori se la terapia è nella fase iniziale e si deve, pertanto, ancora costruire la relazione di fiducia fra paziente e terapeuta. Il terapeuta dovrebbe possedere un’accurata conoscenza del paziente e comunque è sempre utile chiedere al paziente il permesso di toccarlo ed osservare non solo la sua risposta verbale, ma essere sensibili anche alla reazione non verbale (accade infatti che taluni pazienti non riescano a dire “no”, per svariati motivi, al proprio terapeuta). Va da sé che il contatto non deve essere dato quando il paziente non vuole essere toccato.
Sul versante del terapeuta, si evidenziano alcune situazioni in cui il contatto è inopportuno: innanzitutto, quando, in quel determinato momento, il terapeuta nutre qualche perplessità in riguardo, o comunque avverte il contatto ego-distonico. Un’altra situazione è quando il terapeuta vuole utilizzare il contatto in risposta ai propri bisogni e non per promuovere la crescita del paziente, o se non è consapevole della proprie motivazioni e delle risposte di controtransfert. In ogni caso il contatto corporeo è controindicato quando è presente un potenziale abuso (oltre che sessuale) basato su qualche forma di potere.
Da quanto evidenziato, risulta, quindi, fondamentale per il terapeuta non solo un buon training teorico/tecnico, ma anche un percorso personale di analisi ad indirizzo psico-corporeo, che permetta al terapeuta (futuro terapeuta) di confrontarsi con il proprio corpo, di sviluppare una buona consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri processi corporei e delle proprie tensioni; di sperimentare esperienze e vissuti legati ai diversi tipi di contatto ed infine di analizzare il contro-transfert (corporeo e non), allo scopo di far sì che il meno possibile di quanto accade dentro di sé resti inconscio[33].
Secondo uno studio condotto da Milakovich (cit. in Pini, pp.67-68)[34], il training formativo, il percorso di analisi personale e quello di supervisione effettuati dagli psicoterapeuti hanno un’influenza significativa sulle credenze e sugli atteggiamenti nei confronti dell’uso del contatto ed i suoi benefici. In particolare sono emersi tre fattori statisticamente significativi: l’esperienza del contatto fisico nella propria analisi personale; la presenza di formatori e supervisori favorevoli al contatto e la quantità di training sull’uso terapeutico del contatto[35].
Concludendo è lecito chiedersi, quindi, se esistano dei criteri univoci riguardanti le condizioni di applicabilità del contatto fisico, che, lungi dall’essere considerati un repertorio di regole prestabilite, possano orientare gli addetti ai lavori in questo delicato labirinto.
In questo articolo abbiamo considerato unica ciascuna relazione che si sviluppa nei vari ambiti, in particolare in quello terapeutico; pertanto i risultati ottenuti in talune relazioni terapeutiche non possono essere trasferiti alle altre. Quindi, il problema se utilizzare o meno il contatto in psicoterapia è influenzato da una serie di variabili riguardanti quella precipua relazione: le caratteristiche del paziente, quelle del terapeuta, la loro interazione, il particolare momento che la coppia paziente-terapeuta sta vivendo, l’indirizzo di riferimento, il contesto del trattamento.
Noi crediamo che il significato profondo del contatto non consista nell’applicazione di un mero intervento tecnico. La teraputicità risiede nello scambio multiplo e interattivo delle sensazioni, dei sentimenti e delle emozioni che il contatto attiva. Vissuti che nel loro complesso possono avere una duplice funzione: supportiva e conoscitiva. Il contatto è una forma di comunicazione che comincia lì dove la parola smarrisce la possibilità di dare senso all’esperienza. Un tipo di intervento le cui potenzialità devono essere sfruttate al meglio e, con competenza, messe a disposizione del processo terapeutico.
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(*) Psicologo, Psicoterapeuta in Analisi Bioenergetica. Autore del cap.1; coautore dell’introduzione e del par.3.
(**) Psicologo, Psicoterapeuta in Analisi Bioenergetica. Autrice del cap.2; coautrice dell’introduzione e del par.3
Note
[1] Gill distingue i criteri intrinseci, cioè interni alla teoria psicanalitica, da quelli estrinseci: uso del lettino, alta frequenza delle sedute di terapia e selezione dei pazienti.
[2]Migone (1988 p.50) sottolinea come sia cambiato, nel corso degli anni, il modo di intendere il transfert, passando in termini teorici, da una concezione intrapsichica a una visione interpersonale. Egli scrive: “Si deve ritenere invece che il comportamento del paziente di fronte all’analista sia la risultante di tutte le sue esperienze passate accumulate negli anni, sia quelle infantili che quelle adulte, laddove queste ultime si sono sovrapposte a quelle infantili modificando permanentemente il significato che esse avevano, e quindi rendendo impossibile la ripetizione pura del passato. Ciò che il paziente ricorda o rivive nella situazione analitica non è più il passato, ma quello che rimane di esso dopo le modificazioni apportate dalle esperienze successive, le quali possono anche essere in certi casi ancor più importanti.[…] il comportamento del paziente in analisi può essere la reazione non tanto al suo passato remoto, e neanche al suo passato recente, quanto al presente, rappresentato dagli interventi dell’analista nell’hic et nunc della seduta.”
[3] Con riferimento a questo contesto, Jones (cit in. Fosshage, op.cit. p.23 ) scriveva “Freud and his followers were regarded as…sexual perverts…a real danger for the community […]”. “Freud e i suoi seguaci erano guardati come…pervertiti sessuali…un pericolo reale per la comunità […]” [T.d. A.]
[4] Per un approfondimento della vicenda che portò l’establismenth psicanalitico ad emarginare e screditare Ferenczi si veda Bonomi 1999.
[5] Tralasciando i ben noti casi storici – tra i quali si annoverano illustri dissidenti come Rank, Jung, Adler, Reich – senza necessariamente risalire alle origini della psicanalisi, si ricorda che anche Kohut con la sua “Psicologia del Sé” e la grande importanza attribuita al concetto di empatia, negli anni settanta fu considerato dall’ortodossia un dissidente. Un certo tipo di atteggiamento sembra, quindi, essersi protratto per molti decenni imponendo, come imperativo del movimento psicanalitico, la difesa della sua identità.
[6] Storicamente negli Stati Uniti la psicanalisi è sempre stata appannaggio dei medici; solo a partire dal 1989, e solo in seguito ad una lunga controversia giudiziaria, gli psicologi americani hanno potuto accedere al training analitico presso le diverse istituzioni riconosciute. Questo fa comprendere come l’impegno maggiore sia stato quello di definire la psicanalisi una procedura medica standardizzata che rientrava tra le scienze naturali (cfr. Migone 1995; Mcwilliams 2006).
[7] Tale posizione è stata al centro del dibattito sulle differenze tra psicanalisi e psicoterapia. L’interpretazione, ed in particolare l’interpretazione del transfert, è stata considerata lo spartiacque naturale dei due ambiti poichè definiva i confini della psicanalisi rispetto alla psicoterapia (cfr. Migone 1995).
[8] Per approfondimenti sull’argomento si rinvia ad Umberto Galimberti; nel suo libro Il corpo, partendo da una disamina relativa alla posizione che gli è stata assegnata dalla cultura occidentale, ci porta a riflettere su come al corpo sia stato riservato il posto di negativo dell’anima.
[9] Groddeck, Ferenczi e Reich furono, fra i contemporanei di Freud, gli autori che più svilupparono un approccio psicocorporeo.
[10] Già in passato si erano avuti esempi di gravi alterazioni nei bambini per la mancanza di relazioni familiari adeguate, in particolare di quelle materne; si pensi ad esempio agli esperimenti fatti realizzare da Federico II, nel XIII sec, su alcuni bambini in età preverbale isolati da ogni forma di contatto fisico e di comunicazione al fine di verificare l’esistenza di una lingua “naturale” (Cantoni, Di Blas. 2002. p.72).
[11] Ricordiamo che Bowlby, oltre che dagli esperimenti di Harlow, prende spunto anche dagli studi etologici di Lorenz sull’imprinting.
[12] Stern (1985. pp.23-29) sostiene che fin dalla nascita il bambino ha un Sè ben definito, sebbene parli di senso di sé come semplice coscienza, esperienza diretta, non pensiero. Pertanto esiste nel neonato un senso preverbale del Sé che precede non solo lo sviluppo del linguaggio ma anche l’inizio della coscienza autoriflessiva o coscienza di Sé.
[13] Che è una forma di espressione biologica ad un livello superiore di sviluppo
[14] A Reich si deve riconoscere il merito di aver ricostituito l’unità corpo-mente attraverso il concetto di corazza caratteriale e di aver elaborato un modello teorico caratterizzato da forte coerenza interna e grande attenzione al dettaglio clinico. Per approfondimenti si rinvia alla sua opera principale, “L’analisi del carattere”.
[15] Per una descrizione dello sviluppo dell’Io e della pelle quale membrana limitante si veda anche Winnicott (1965) “L’integrazione dell’Io nello sviluppo del bambino”, in Sviluppo affettivo e ambiente, pp.67-76
[16] Tronick usa il termine processo co-creativo distinguendolo da quello di co-costruzione usato per es. da Beebe e Lachmann. Mentre quest’ultimo processo prevede uno stato finale e dei passi per raggiungerlo, il processo co-creativo non implica questi due aspetti, in tale processo non è dato sapere come i soggetti coinvolti nello scambio staranno insieme né quali sono le dinamiche e la direzione che seguiranno; tutto ciò dipenderà dalla regolazione reciproca (Tronick, 2008. pp281-282)
[17] Secondo lo psichiatra Daniel J. Siegel (1999, p.2), le strutture e le funzioni del cervello sono direttamente influenzate dalle esperienze interpersonali; egli sostiene quindi, in maniera radicale che le connessioni umane plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che danno origine alla mente.
[18] Possiamo qui ricordare come lo studio sulla memoria cellulare dell’Aplysia californiana (che significò per Kandel il premio Nobel nel 2000) ha dimostrato che stimoli ripetuti vengono memorizzati stabilmente e modificano la struttura nervosa, e che la rete neurale modificata, a sua volta, può modificare stabilmente l’espressività di un gene (Kandel, 2009. p.30sgg.)
[19] I ricercatori hanno esaminato come l’attenzione materna influisca sul gene GAD1, che controlla la produzione di un neurotrasmettitore di primaria importanza, il GABA, il quale modula la capacità di controllare le emozioni e che nelle persone affette da schizofrenia è carente.
[20] In questo caso si presuppone che il transfert sia generato solo ed esclusivamente sul piano intrapsichico.
[21] “Recognizing that the analyst variably contributes to the analysand’s transferential experience makes us far more aware of the subtle, complex verbal and nonverbal communications that take place in the analytic arena. In turn, it opens the door for us to consider a vast array of interventions, including touch, that may or may not be facilitative”. [T.d.A.]
[22] Questo tipo di intervento sulla muscolatura profonda era utilizzato da Groddeck già a partire dal 1913. L’aspetto sorprendente è che questo autore, precorrendo i tempi, aveva teorizzato l’esistenza di un rapporto tra difese corporee e sintomi psicosomatici, individuando tre principali difese: la controattivazione, la contrattura muscolare cronica e l’affievolirsi della respirazione (cfr. Downing, op. cit. pp. 329-331).
[23] Quanto emerge viene in seguito integrato dal paziente anche tramite il livello verbale-cognitivo.
[24] Si tratta di una critica che coinvolge complessivamente gli approcci psicocorporei che si rifanno a un modello energetico, prima che provassero a integrare nel loro corpus teorico aspetti delle relazioni oggettuali e dell’intersoggettività. Di questa impostazione tradizionale si dice che portava a lavorare “sul” paziente piuttosto che “con” il paziente, ponendo in questo modo l’enfasi sulla sua posizione passiva.
[25] In particolare dell’Ippocampo (interessato nei processi della memoria consapevole, semantica ed episodica) e delle strutture corticali ad esso collegate (Galimberti, U. 2006 pp.559-569), funzionali alla creazione di rappresentazioni mentali (parole ed immagini) associate agli stati sensoriali ed emozionali vissuti.
[26] Tale memoria più antica prescinde dalle funzioni ippocampali e sembra interessare strutture sottocorticali del sistema limbico quali l’amigdala (la quale attiva le reazioni viscerali che caratterizzano il vissuto emotivo) (Galimberti U. 2006 p.44) e la corteccia prefrontale.
[27] Per un approfondimento su memoria implicita e neuroscienze, si rimanda a Schore (2003) e Cozolino (2006); mentre per la memoria implicita in psicoterapia si veda Tonella Guy Une mémoire pour le corps Pubblicato in « Réminiscences : Entre mémoire et oubli … », Joïce AÏN (Ed.), Edition Eres, 2010. Trad.it Una memoria per il corpo. In CorpoNarrante n°4 -2011
[28] Il campione era composto da un gruppo di 231 pazienti adulti che avevano formato con i loro rispettivi terapeuti coppie sia miste che omogenee per quanto riguarda la differenza di genere.
[29] Brown basa l’uso del contatto fisico in psicoterapia su una metodologia fondata sulla gratificazione del bisogno, opposta agli interventi (per es. la psicoanalisi classica) basati sulla frustrazione. Inoltre, a differenza del modello reichiano, per Brown, lo scopo dell’organismo non consiste nel caricare/scaricare quantità energetiche, bensì nel riportare la tensione ad un livello ottimale e distribuirla in tutto il corpo (Brown 2001p.115)
[30] Lowen intende la paura, da parte del terapeuta, di un coinvolgimento sessuale.
[31] L’unico punto sul quale la comunità scientifica concorda è il divieto verso ogni forma di contatto sessuale.
[32] A tal proposito si ricorda che invece Ferenczi considerava il contatto corporeo uno strumento utile proprio per superare gli effetti negativi dei traumi psichici e delle carenze affettive dell’infanzia attraverso esperienza emotiva correttiva nell’ambito della relazione terapeutica.
[33] Lowen sosteneva che “La terapia personale è la condizione essenziale per poter svolgere la terapia sugli altri”, “…un terapista deve conoscere se stesso, essere in contatto con se stesso prima di poter entrare in contatto con il paziente” (2000, p.79). “Essere in contatto significa essere consapevoli di ciò che accade dentro di voi e intorno a voi. È qualcosa di completamente differente dal conoscere, che è un’attività più intellettuale che percettiva” (1979 p.53).
[34] Lo studio, condotto su 84 terapeuti statunitensi in egual numero di orientamento diverso, era finalizzato a rilevare le differenze esistenti fra i terapeuti che utilizzavano e quelli che non utilizzavano il contatto fisico, ed identificarne i principali fattori.
[35] Nello specifico: gli psicoterapeuti che hanno sperimentato il contatto durante la propria terapia, impiegano maggiormente il contatto con i loro pazienti, rispetto ai terapeuti che non lo utilizzano; gli psicoterapeuti che utilizzano il contatto hanno avuto nella loro storia professionale formatori e supervisori che hanno sostenuto il contatto come pratica legittima; gli psicoterapeuti che utilizzavano il contatto hanno effettuato diversi training – di oltre 50 ore – sulle modalità d’impiego terapeutico del contatto fisico.