
Sembrare stupidi: strategie di protezione profonda
Il testo racconta la storia di Bea, una paziente in terapia che vive una sensazione di estraneità dal mondo, osservando gli altri da lontano e comportandosi in modo non convenzionale per preservare la sua dignità. Bea descrive la sua esperienza come attraversamento di una “zona” dell’anima dove le regole ordinarie non si applicano, un luogo di rischio e distruzione. Dopo aver condiviso la sua storia, Bea si ritrae, forse per vergogna, impedendole di guardare il terapeuta e facendola sentire annullata. Il terapeuta vive anche lui un senso di spaesamento. Bea cerca un luogo sicuro, lontano dalle pressioni della vita e dall’intimità da cui si sente esclusa, proteggendo il suo spazio esistenziale. Durante le sedute, esprime il bisogno di mantenere distanza nelle relazioni interpersonali per non essere “esistenzialmente toccata”. Il testo evidenzia l’importanza del livello corporeo nell’interazione tra terapeuta e paziente e la necessità di una sintonizzazione che vada oltre le parole. Bea impara così una strategia di distanziamento, non solo negando un vissuto interno, ma anche l’evidenza esterna condivisa, come meccanismo di difesa. In conclusione, si esplora il delicato equilibrio tra la protezione dello spazio esistenziale e il desiderio di connessione e intimità nella psicoterapia, con Bea che lotta per mantenere la dignità umana di fronte a esperienze intense.
Prof. Maurizio Stupiggia (*)
Abstract
A volte alcune esperienze sono così forti ed opprimenti che ci costringono ad andare contro il senso ordinario del nostro comportamento, perché solo così, noi crediamo, è possibile sopravvivere nella nostra umana dignità. E così il nucleo profondo del nostro essere comincia a possedere una strana caratteristica di “intima alterità”.
(…) Ma tutto questo a cosa ci serve? A non far entrare nessuno nella propria Zona, a tenere in vita il proprio spazio personale, a non trovarci mai troppo vicini all’altro; a diventare inaccessibili (…) senza storia personale e senza identità costituita.
Parole chiave: PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder), Stalker, Abuso, Sintonizzazione, Controtransfert corporeo.
A volte alcune esperienze sono così forti ed opprimenti che ci costringono ad andare contro il senso ordinario del nostro comportamento, perché solo così, noi crediamo, è possibile sopravvivere nella nostra umana dignità. E così il nucleo profondo del nostro essere comincia a possedere una strana caratteristica di “intima alterità”.
Appaiono perciò zone della nostra anima dove non valgono le solite regole: linee immaginarie dove le forze cambiano direzione, le qualità si capovolgono e le ragioni abituali diventano pericolose assurdità. Sono confini che separano il territorio della vita da quello del rischio della distruzione. Sono veri e propri buchi neri della nostra anima, in cui tutto può venir risucchiato e capovolgersi nel proprio opposto: il tempo diventa negativo, la materia evapora, il vuoto assume il comando. E salta quel necessario processo di riconoscimento reciproco tra noi e il mondo.
E’ proprio questo di cui mi parla Bea nel suo primo incontro:
“Mi sento fuori da tutto . . . guardo gli altri e mi sembrano lontani anni luce, e io mi sento una marziana. Nessuno si accorge di questa cosa, ma io la sento sempre, non mi abbandona mai . . . è come un velo che mi separa dal mondo, e che mi avvolge interamente, da tutti i lati. A volte mi osservo parlare con gli altri, ma è come se io non stessi parlando, e come se non stessi nemmeno ascoltando . . . solo osservando una scena che quasi non mi riguarda.
Io lavoro, pulisco la casa, telefono, discuto con mio marito e mia madre, faccio anche l’amore qualche volta… ma io non ci sono… e poi alla fine non ci sono neanche gli altri… nel senso che non mi vedono, non mi considerano, non prendono seriamente le cose che dico . . . e così io finisco sempre per sentirmi una merda, la persona peggiore, quella che nessuno vuole vicino . . . e penso che stanno con me per pena, per paura di ferirmi o anche solo perché non hanno nessun altro a mano in quel momento.”
Bea vomita tutto d’un fiato questo lungo discorso, e alla fine si piega su di sé, sospirando e distogliendo lo sguardo da me: sembra quasi un palloncino che si sgonfia rapidamente e si accascia a terra, e come un palloncino sgonfio perde qualsiasi tonicità e ogni forma di vitalità.
Questa sua reazione mi colpisce per l’evidenza e la subitaneità, e immediatamente prende significato, se accostata alle cose appena dette. Se potessimo infatti sintetizzare il suo discorso, potremmo evidenziare due aspetti essenziali: il senso di estraneità (quasi verso la dissociazione), e la perdita della sua autostima. Mantenendo la metafora del palloncino, potremmo così vedere che Bea, proprio come un palloncino che si sgonfia, si ritrae, fugge indietro, e perde la sostanza della propria interiorità. Abbiamo già qui un accenno di quello che è il mondo di questa persona: dopo aver raccontato di sé, si ritrae dal contatto e si perde a se stessa e all’altro; probabilmente entra in contatto con una vergogna così forte che le impedisce di guardarmi e la nullifica totalmente. Ma la cosa abbastanza sorprendente riguarda me e il mio vissuto: io mi sento trasportato in uno spazio che ha la promessa dell’intimità, ma che dona, al contrario, solitudine, spaesamento e un fortissimo timoroso pudore. E’ come se mi trovassi in un luogo dove non dovrei stare, un luogo proibito, privato, anzi così privato che non c’è nessuno. Quasi mi sento in colpa di essere là, come se avessi trasgredito una regola non scritta, oltrepassato un confine invisibile ma tangibile. Sembra un luogo effettivamente molto “privato”, ma nel senso originario della parola, da intendersi a partire dalla sua radice, la privazione. Forse sono capitato là dove non può esserci nessuno: nel fondo del mare, sulla cima dell’Everest, o più semplicemente in un deserto interiore.
LA ZONA
La metafora di Bea, della marziana, può far pensare al cadere in un pianeta sconosciuto, o più semplicemente ad un “essere sempre sulle nuvole” come le dicono spesso le altre persone.
Al termine del suo racconto si apre infatti uno scenario un pò surreale di empasse, condito da un’atmosfera di stallo e di impotenza, e soprattutto una sospensione, anzi un vero e proprio sgonfiamento, della relazione.
E questo non è completamente comprensibile, alla luce del fatto che la paziente si è appena confidata con il terapeuta; sarebbe forse più logico che la sua narrazione fosse seguita da un’intensificazione del livello relazionale (magari sotto forma di vigile e teso controllo delle reazioni del terapeuta), invece che da un calo di coinvolgimento relazionale. Ovviamente non è così strano che Bea si ritiri dalla relazione e diminuisca il suo stato di attivazione (arousal), ma è per noi indicativo di ciò che si rivelerà, più avanti, di più difficile interpretazione.
La seduta successiva continua il racconto e getta più luce sui nostri interrogativi.
“Evito accuratamente di star da sola di fronte a qualcuno che non conosco bene. Quando mi capita mi sento malissimo, mi sento giudicata . . . e ovviamente condannata . . . vorrei volatilizzarmi, non essere vista, scappare senza correre . . . essere viva senza esserlo. Ma se poi l’altro distoglie lo sguardo, è quasi peggio . . . mi sento distrutta, sparita davvero . . . non esisto più. Quindi alla fine è meglio che io stia da sola, che non mi metta in queste situazioni, da cui non riesco ad uscire.”
Bea non può reggere lo sguardo dell’altro né tantomeno la sua mancanza, e ciò di cui prefigura il bisogno in questa descrizione è un luogo totalmente sicuro, senza pericolo di morte e senza le pressioni della vita, senza la visibilità dell’esistenza ma senza il vuoto della sparizione. Una condizione pre-terrena, o ultraterrena, il che è lo stesso.
Ma se vogliamo provare a rimanere su questa terra, dobbiamo dire che Bea sta cercando di andare nella sua intimità, da cui lei si sente esclusa, soprattutto quando è in presenza degli altri.
E come in Stalker, il film di Tarkovskij, c’è una Zona, luogo in cui si cela appunto una “Stanza dei desideri”, dove chi vi si reca vede realizzarsi le proprie aspirazioni. Alla Zona ci si deve però avvicinare con estrema circospezione, come indica l’etimo stesso degli Stalker, il cui nome deriva dall’inglese to stalk, “avvicinarsi con cautela. Anche Bea sembra entrare in un’area di distruzione, o per meglio dire, di nientificazione, dove ogni cosa perde il proprio valore, dove il rischio è la morte, dove solo poche persone riescono a entrare, dove però si possono contattare i desideri più intimi e segreti, a patto che ci si avvicini con cautela e accompagnati da una guida esperta.
DOVE CI SONO IO, NON C’E’ PIU’ IL MIO IO
Alla terza seduta con Bea il viaggio comincia sul serio.
“La scorsa settimana ho fatto l’esame finale della scuola per assistenti sociali. Sono passata per miracolo, ero l’ultima e la commissione non ne poteva più, ma ho fatto una figura di merda! Mi hanno fatto una domanda facile e io la sapevo. . . ma ho dato la risposta sbagliata! . . . la prof mi guardava con gli occhi sgranati . . . non ci voleva credere, quasi mi supplicava con lo sguardo di ripensarci e di dare l’altra risposta . . . ma c’era qualcosa dentro di me che mi faceva dire questo, mi dirigeva il discorso in quel senso. Mi sentivo una demente e non potevo farci nulla perché l’avevo fatto proprio io!”
Questa volta finisce il racconto tenendo lo sguardo su di me; ha gli occhi aperti, quasi sgranati, con un misto di sfida e di supplice attesa, come se sperasse in una mia risposta o sentenza, ma anche con una parte di fierezza di fronte alla stravaganza della situazione e alla sua inesplicabilità.
La complessità del suo sguardo è comprensibile solo dopo aver sentito il seguito del suo racconto.
“Mi rendevo conto che la prof. si aspettava la risposta giusta, e io la sapevo, ma non gliela volevo dare . . . una parte di me me lo impediva, anche se, dentro, mi davo della cretina.” Bea si ferma, sosta un po’ sulle sue ultime parole e poi tutto d’un fiato condensa in una frase la soluzione di questa stravagante situazione: “Non volevo farla entrare!”
Ecco il primo paradosso: se dico quello che penso, non sono più io!(se mi affermo mi perdo).
Bea stessa ci spiega questo: “A volte preferisco fare la figura della stupida, piuttosto che accontentare gli altri rispetto a quello che si aspettano da me. Divento ostinata nel non dare loro ragione e mi arrocco su posizioni a volte assurde.”
E’ una prima spiegazione, ma ancora non si capisce perché mai preferisca passare per stupida, quando può semplicemente dare la risposta corretta. E infatti questo resta un suo grande dilemma: tutta la vita si è domandata perché fa di tutto per apparire un’idiota. La risposta più ovvia risiede nel fatto che la sua autostima è bassissima, ma questa non è necessariamente una causa esplicativa, bensì ne può essere un effetto, dato che, a forza di far la stupida, la stima di sé tende a sparire. Le due cose sono infatti interconnesse in un circolo vizioso: l’una alimenta l’altra.
E non può trattarsi nemmeno di un’inconscia coazione a ripetere, poiché lei ne è perfettamente consapevole, e sembra poterla padroneggiare, se solo lo volesse con tutta se stessa.
Perché allora Bea si comporta così?
IL SENSO NEL CORPO
Forse cambiando livello possiamo avanzare la nostra comprensione. Chiedo così a Bea di ritornare con l’immaginazione al momento dell’esame, di riprodurre qui lo stato mentale e sensoriale di quella situazione: “Immagina di essere davanti a quella prof, e ascolta ciò che ti passa: i pensieri nella testa, le sensazioni nel corpo e i piccoli movimenti che stai facendo o che ti vengono da fare . . .”
Questo invito la aiuta ad espandere la comprensione della sua esperienza: “Beh, nella testa c’è una voce che continua a spingermi nel dare la risposta sbagliata . . . spinge spinge, come se fosse necessario così . . . e nel corpo . . . nel corpo non sento niente . . . tutto è fermo, il respiro, le braccia, il viso, la schiena . . . insomma tutto, sono impalata come uno spaventapasseri. “
“Puoi soffermarti un po’ sulle sensazioni del corpo – le chiedo – cercando di entrare in questo tuo stato? Puoi cioè sentire per un po’ di tempo come stai dentro al tuo corpo . . . con il respiro fermo, le braccia e la schiena che non si muovono . . . e lasciando eventualmente emergere anche altre sensazioni più sottili o strane?”
Bea socchiude gli occhi e sospira, come se si concentrasse per un tuffo dal trampolino, e comincia impercettibilmente ad irrigidirsi nella postura; anche la mascella si immobilizza e il viso assume un’espressione tesa e preoccupata, le dita delle mani cominciano a sfregarsi molto lentamente in un movimento breve ma continuo.
“Prova – le chiedo – a sentire tutte queste sensazioni insieme; prova a sentire se c’è una sensazione globale, o un’immagine che emerge spontaneamente; cercando di rimanere in contatto con le tue sensazioni corporee, guarda quali parole e/o pensieri vengono nella testa.”
Mentre la invito a concentrarsi su tutto questo, Bea comincia a respirare in maniera più evidente, ma a leggeri scatti, come se si muovesse, salendo o scendendo, lungo degli scalini: “Non posso muovermi, mi sento bloccata – dice quasi soffiando – non so perché, ma c’è qualcosa che mi blocca . . . non so forse una paura . . .”
Lascio passare un lungo minuto prima di provare un ulteriore passo: “Con queste sensazioni, in questa posizione e tenendo davanti a te le parole che ti sono venute, puoi vedere se c’è una scena, una situazione o anche semplicemente una persona che emerge, che ti viene in mente dal tuo passato . . . qualcosa o qualcuno che, anche se non c’entra molto con quello che stai vivendo ora, si accosta e ti torna alla memoria proprio adesso?”
Bea non risponde, almeno non con le parole, ma comincia a scuotere impercettibilmente la testa a destra e a sinistra, mentre gli occhi vibrano con dei piccolissimi spasmi; dall’esterno è evidente che qualcosa sta accadendo, ma io non oso interrompere con le parole un processo che può essere molto profondo.
“Non credo sia importante – sbotta, riemergendo da un mare oscuro – quello che ho pensato. Mi è venuto in mente mio fratello . . . nel senso che ho pensato a quella volta che siamo stati in campeggio con amici, senza genitori.”
Mi guarda e smette di parlare; io annuisco e non intervengo; comincia uno strano silenzio tra noi: stiamo per abbandonare le vie conosciute e addentrarci nelle gallerie impervie e poco illuminate che conducono alla Zona.
GLI ENIGMI
So che non devo e non posso fare nulla in questo momento;
“E’ una cosa che mi ha sempre dato fastidio ricordare. Eravamo a dormire nella stessa tenda e lui di notte mi ha svegliato, mi ha preso la mano e mi ha chiesto di toccarlo – dice tutto d’un fiato – ma io non l’ho fatto.” Lo dice senza particolari coloriture, come se non la riguardasse direttamente, o come se dovesse dirlo il più rapidamente possibile per non sentire dolore.
Ecco il momento più delicato; qui il terapeuta deve sapersi avvicinare molto gradualmente, e con grande cautela perchè deve risolvere alcuni enigmi.
Il primo riguarda la presenza stessa del terapeuta: come ha detto precedentemente, Bea non tollera nè la presenza nè l’assenza dell’altro; come dovrà perciò comportarsi, non potendo esistere ma nemmeno sparire?
Il secondo enigma è ancora più complesso e riguarda direttamente il contenuto del racconto di Bea. Se il terapeuta infatti decide di prendere in seria considerazione l’esperienza di Bea, rischia di venir preso per un persecutore che provoca dolore alla sua vittima; ma se non dà importanza al fatto, rischia di essere vissuto come un complice che collude con il persecutore.
Spiego meglio queste due difficili aporie.
La prima riguarda la condizione di estrema esposizione e vulnerabilità che la persona violata e invasa si trova a vivere; il senso di distruzione interna porta con sè una vergogna enorme, che rende sensibile la persona ad ogni piccolissima variazione di stato dell’altro, rispetto all’avvicinarsi e all’allontanarsi. Il sentimento varia all’interno di una scala compresa fra invasione e deprivazione, e non ha alcun punto di benessere, per cui il soggetto si trova a desiderare solo l’immobilità, quale unica possibilità di non sofferenza rispetto a queste due spiacevoli emozioni. Dall’esterno potrebbe sembrare un desiderio di regressione ad una fase prenatale (dando per scontato che questa sia felice), e spesso tali persone fantasticano un ritorno allo stato di natura, o si occupano con passione di teorie new age e religioni che trattano di reincarnazione, di karma e di fenomeni transpersonali. Non discuto assolutamente la bontà di tali idee, cerco solo di evidenziare la frequente connessione tra esperienze di radicale distruzione e l’adozione di ideologie di questo genere: in questo senso ne vedo la forte portata salvifica.
Di fronte a questa situazione il terapeuta si trova in grande difficoltà; non può andare incontro al paziente, non può allontanarsi per lasciare lo spazio: non può essere presente e nemmeno assente. E’ una condizione impossibile, ad un primo sguardo. Ma se cominciamo a ridiscutere lo statuto dell’esistenza stessa del terapeuta, forse troviamo una via; possiamo dire che ha un’esistenza parziale e vincolata, siamo simbolicamente di fronte ad una riduzione ontologica dell’esistenza.
Mi rendo conto che, ad uno sguardo immediato, tutto ciò può sembrare soltanto una ripetizione, con altre parole, della descrizione del classico atteggiamento analitico in un setting tradizionale: tutto, infatti, sembra corrispondere alle caratteristiche di una corretta posizione analitica. Ma la situazione è più complessa; molti pazienti infatti riferiscono il fatto che la situazione analitica abbia due possibili controindicazioni, a seconda del tipo di setting utilizzato. Nel setting tradizionale dell’analista dietro al lettino vi è il rischio che il paziente si blocchi ancora di più, dato che si trova in una situazione di non controllo rispetto all’analista, e questo può impedire al paziente di accedere a contenuti così disagevoli e pericolosi.
Nel setting vis a vis vi è un rischio di “freddezza” e di sguardo giudicante. Mi spiego meglio: non è che l’analista debba essere caldo e amichevolmente coinvolto, ma se limita al solo aspetto mentale la cura del suo intervento, il paziente può reagire come Bea ogni volta che si trova a tu per tu con qualcuno, in una situazione di intimità che lei non può reggere e di cui non conosce la portata benefica.
E qui dobbiamo affrontare il secondo enigma per comprendere meglio.
AFFRONTARE IL PARADOSSO
In fondo Bea ha bisogno di qualcuno che la aiuti ad attraversare l’inferno!
Dante si fa accompagnare da Virgilio nel suo viaggio, e qualsiasi turista inesperto che vuol scalare una parete rocciosa cerca una guida esperta che gli faccia strada. Anche lo Stalker è una guida, ma è una guida psichica che accompagna i cercatori nella loro stanza del desideri; anche Bea ha bisogno di una guida che la aiuti a superare razionalità e scetticismo, e ad entrare nell’inferno del desiderio, un desiderio che è stato essenzialmente dell’Altro e che, adesso, tra le macerie rimaste può ridiventare il suo. Ma la guida sta usualmente davanti al cercatore, o al massimo di fianco, nei momenti di difficoltà o di empasse; e il geniale capovolgimento operato dalla psicoanalisi (il terapeuta aiuta il paziente diventando spazio di proiezione) qui non è sempre possibile, perchè in gioco non c’è solo la fantasia, ma anche la realtà, una realtà che si presenta improvvisamente sotto le vesti del qui ed ora, senza tempo e senza proroghe.
Mi ricordo, a questo proposito, una buffa situazione capitatami vari anni fa in terapia. Un giorno un paziente che veniva da me da alcuni mesi, ma con cui non riuscivo a costruire una relazione di fiducia e a lavorare in modo efficace, mi chiese inaspettatamente di cambiare posizione: da un consueto setting vis a vis, mi chiese di girarmi e di girargli le spalle, in modo che lui vedeva me, ma io non vedevo lui, ed io guardavo verso la finestra. Ovviamente non accettai, o almeno non in quel momento, e cercai di capire assieme a lui il significato di quella richiesta. L’unica cosa che riuscì a dire fu che voleva evitare l’imbarazzo e che il mio sguardo lo bloccava, ma non pensava alla possibilità di avermi alle sue spalle, perchè ne era terrorizzato.
In contrasto con le mie idee, ma in accordo con la mia infantile curiosità, decisi di fare quello che lui mi chiedeva ed il risultato premiò il coraggio.
Il paziente cominciò da subito a parlare in maniera differente, senza troppi giri di parole o metafore confusive, e dopo un certo tempo riuscì a raccontare quello che probabilmente costituiva il nucleo forte del suo malessere.
Viveva con la famiglia in un paesino di montagna, e a 14 anni fu mandato in città per frequentare il liceo; fu messo in un collegio per tutti gli anni della scuola e lì visse un periodo di profonda e desolante solitudine, poichè tornava a casa solo due volte l’anno, e riceveva la visita dei famigliari molto raramente. Ma fu davvero traumatico ciò che cominciò a succedere dopo qualche tempo: fu preso di mira dai ragazzi più grandi e diventò oggetto di scherno e prese in giro, fino a subire veri e propri atti di molestia e abuso.
La terapia decollò e potè produrre buoni effetti, ricostruendo gradualmente la sua autostima e la fiducia nel mondo e negli altri. Tempo dopo mi rivelò che quella seduta in cui mi ero messo di spalle a lui era stata cruciale, mi era grato per aver assecondato una sua “folle” richiesta e si rendeva conto che quella era stata forse l’unica maniera per lui di potersi aprire.
Quel paziente mi aveva mostrato come essere una guida per lui, mi aveva chiesto di guardare avanti, di non guardare dentro di lui, e questo gli aveva permesso di entrare in contatto con la sua “stanza delle paure”, per poi risalire fino al senso di sé più vicino all’autenticità. Di nuovo vediamo qui come il terapeuta ha bisogno di poter cambiare il suo modo di stare con l’altro, e di cambiare, in un certo senso, il gioco che fa assieme all’altro: di solito la psicoterapia, quella analitica ed esplorativa, è basata sull’ accordo implicito che il paziente è il soggetto da conoscere e il terapeuta colui che lo interroga, pur senza fare domande. Il focus della terapia è l’interiorità del paziente.
Qui cambia la prospettiva: il terapeuta non può guardare dentro al paziente, perché la sua interiorità è ridotta in macerie, e quindi il focus si sposta, e diventa una sorta di orizzonte esterno: la terapia assume il carattere di viaggio iniziatico, più che di viaggio interiore, con le sue prove ed ostacoli, con i suoi enigmi e le sue trappole.
Ho potuto constatare la validità di questa idea nel momento in cui ho accompagnato alla morte alcuni miei familiari; ho visto il senso di profonda umiliazione degli uomini nell’essere esposti all’altro con la loro inesorabile debolezza; ho percepito l’estrema fragilità delle donne che si stavano consumando, e si allontanavano implacabilmente dal mondo, forse per non essere toccate e quindi disintegrate sull’istante. Insomma, quando c’è di mezzo la morte, lo sguardo deve farsi obliquo, indiretto, non indagatore ma accompagnante, e l’orizzonte cambia inevitabilmente: non è più la persona ma qualcos’altro oltre lei.
Lo Stalker di Tarkovskij è perciò per noi metafora dell’atteggiamento terapeutico di fronte al paziente che rischia l’annientamento (in senso psichico, cioè simbolico) : il terapeuta non interroga, ma indica l’orizzonte di senso; non usa lo sguardo, ma lo riceve; non affronta, ma precede; non spinge, ma affianca.
LA SINTONIZZAZIONE SENZA PAROLE
Ma torniamo al punto da dove siamo partiti per questo excursus: il momento in cui Bea comincia a raccontare la sua notte in campeggio, nella tenda col fratello.
Come si riflette nel modo di interagire del terapeuta tutto quello che abbiamo detto finora? Abbiamo visto i rischi, le controindicazioni, e le possibili contromisure necessarie; ma cosa significa nella concretezza di quel preciso momento?
Come può il terapeuta soddisfare tutte quelle condizioni appena elencate?
Non essere là, ma nemmeno sparire; non indagare, ma nemmeno rimuovere. E’ una situazione che sfugge a qualsiasi soluzione basata sulla logica ordinaria aristotelica (o A o nonA; tertium non datur), quella che utilizziamo per le nostre faccende quotidiane; e questa aporia costituisce un corto circuito nel nostro modo di funzionamento cognitivo: questo potrebbe forse spiegare i fenomeni di trance cognitiva che osserviamo nei soggetti traumatizzati e con vissuti di abuso e violazione.
Ci può aiutare in questa situazione un principio della teoria dei sistemi: quando non possiamo trovare una soluzione ad un livello del problema, possiamo provare a fare un salto di livello.
Sono davanti a Bea e mi sento avvolto dall’atmosfera descritta sopra, tutto il mio apparato di parole è in stallo, perché qualunque cosa dica può farla schizzare lontano o farla implodere lì di fronte, esplosione o implosione.
Salto di livello: senza pensarci e senza deciderlo, mi affido al corpo; non do molto ascolto ai miei pensieri e cambio invece direzione alla mia attenzione, mi accorgo che il respiro arranca, ho una tensione alla nuca, e un nodo in gola. Guardo Bea, e mi pare di riconoscere le stesse cose in lei; sento le mie e guardo le sue; non la guardo negli occhi, non mi viene da farlo, sarebbe forse un’intrusione, sarebbe come rinunciare al mio ruolo di guida, di Stalker; invece continuo a stare in questa sorta di doppio corpo, il mio e il suo; e mi accorgo che dopo qualche momento il suo respiro cambia . . . ma sorprendentemente anche il mio sta cambiando . . . e non capisco quale sia stato il primo . . . e ora viene un sospiro che solleva sensibilmente la testa e la scuote dolcemente, come un vento gentile con un giovane albero . . . e i sospiri e le teste sono due, e nessuna comanda l’altra, ma sembrano quasi d’accordo nel muoversi assieme . . . così che quando vedo un tremore che sale dal petto di Bea fino alle sue guance, non mi stupisco che ci sia un tremolio anche in me . . . e ora non sto più pensando a niente di particolare, sono totalmente dentro a questo sentire e guardare, e l’unica cosa che mi viene in mente per un attimo, in una pausa di questo flusso di esperienza, è che siamo legati, siamo assieme qui in questo momento, anche se non so bene cosa voglia dire o che cosa succederà l’attimo seguente.
Siamo qui, siamo qui . . . le uniche parole che emergono dal silenzio della mia testa. Mit-sein direbbe Heidegger, ed ora finalmente capisco perché ha scritto un libro così denso di concetti che mi sono sempre sembrati banalmente ovvi; sono qui ora e sono con Bea, è semplice, ma è una sensazione forte e chiara e soprattuto senza la mediazione dei pensieri e delle parole: pre-riflessiva direbbe Husserl, un altro filosofo che non ho mai compreso così chiaramente come adesso.
“Si può smettere di filosofare quando si vuole” diceva Wittgenstein, e ora ne vedo il senso; a volte occorre abbandonare un problema per trovare una qualche soluzione, per riaprire vie nuove: ho smesso di pensare e mi sono calato in un altro universo, quello sensoriale, permettendomi di incontrare l’altro ad un altro livello, un livello dove ciò che prima era contraddittorio ora diventa compatibile. In quel lungo momento di rispecchiamento corporeo abbiamo potuto essere presenti l’uno all’altra, e al tempo stesso silenziosi e misteriosi per l’altro: ciò che prima era impensabile, perché contraddittorio, ora era una nuova esperienza.
E anche il secondo enigma trovava una risposta; il dilemma, del dare o meno importanza all’esperienza passata di Bea, svaniva nel momento in cui non c’era alcuna discussione o indagine intorno all’argomento, ma la nostra sintonizzazione corporea aveva proclamato che stava succedendo effettivamente qualcosa di importante che richiedeva un’attenzione particolare e uno stare vicino per affrontarlo assieme. “L’attenzione dovrebbe essere rivolta alle forme vitali con cui il paziente si esprime, più che al senso stretto delle parole”, ci dice Stern, mostrando tutta l’importanza del livello implicito corporeo nell’interazione diadica.
Schematizzando possiamo dire che il terapeuta si è sintonizzato sulle forme vitali della paziente, e questo ha permesso di cominciare a costruire una relazione, là dove non sarebbe stato possibile, o almeno altamente difficile, con le sole parole.
QUELLA NOTTE IN TENDA
Così Bea può continuare il suo racconto.
“Quella notte non ho dormito, ero agitata, mi sentivo stranissima . . . lui si è girato dall’altra parte e si è addormentato. Poi alla mattina . . . ed è la cosa che mi ha fatto più male . . . lui ha cominciato a parlare di quello che era successo la notte, ma io non l’ho neanche fatto finire e ho detto subito che non era successo niente . . . ‘non è successo niente non è successo niente’. Non volevo che parlasse . . . non volevo dargli soddisfazione, non volevo farlo entrare . . . mi faceva troppo male, e se lui parlava mi sembrava di impazzire . . . ero già troppo esposta, ero nuda, mi sentivo così molle che avevo paura di essere toccata.”
Purtroppo quella non rimase l’unica notte interrotta e agitata nella storia di Bea, altre ne seguirono, con esiti di volta in volta differenti; ma questo suo racconto ci aiuta a comprendere meglio il senso di quell’episodio dell’esame davanti alla commissione.
E ci aiuta a individuare una serie di strategie che le persone violate nei loro confini mettono in atto, in maniera inconsapevole, nelle relazioni interpersonali, per mantenere il loro spazio vitale e per non essere “esistenzialmente toccate”.
Bea, nel dialogo mattutino col fratello, dice una cosa non vera (‘non è successo niente’) e dà la risposta sbagliata, rispetto alle aspettative, al tentativo di lui di discutere l’accaduto. Probabilmente il fratello è ben contento alla fine di sentire quelle parole, perché così si libera di un peso, ma il prezzo per Bea è che, agli occhi di lui, lei fa la figura della sprovveduta, della sciocca. Ma questo è proprio ciò che le succede sempre nella vita: “Mi sento sempre una demente quando sono insieme agli altri”.
Il prezzo dell’apparire demente o stupida non pare però paragonabile alla paura di far entrare l’altro nella propria interiorità, nel luogo della distruzione e della vergogna.
Il tentativo del fratello, probabilmente manipolatorio, di mettere in discorso i fatti notturni fallisce, e questo obbliga e consente ai due di relegare l’accaduto fuori dal dicibile, così che entrambi si salvano, temporaneamente, dall’onta della vergogna.
Questa scissione è possibile grazie ad una evidente negazione, che consente a Bea di non entrare in contatto con il proprio dolore, e al tempo stesso la separa dal fratello; l’aspetto interessante di questa negazione/scissione è dato dal fatto che è cosciente e quasi volontaria, ma necessaria e impossibile da fermare.
In quel momento Bea apprende una strategia di distanziamento dall’altro, non solo tramite la negazione di un vissuto personale interno, ma attraverso una negazione dell’evidenza esterna, condivisa, di qualcosa che non si può negare perché evidente. Assomiglia molto a quegli interrogatori/farsa dei prigionieri politici in cui, di fronte alla minaccia della tortura e della morte, vengono ammesse colpe inesistenti, o denunciate persone innocenti. E’ una negazione condivisa dell’evidenza reale.
E’ meglio la stupidità o la follia, in certi casi, piuttosto del dolore o della morte.
Purtroppo Bea ha praticato con applicazione questa strategia ed è diventata davvero, agli occhi degli altri, sciocca e a volte un po’ tonta: “Sono la stupidina del gruppo, quando dico qualcosa non sono mai presa sul serio, e a volte non riesco nemmeno a finire i discorsi, perché gli altri stanno già parlando d’altro”. Me lo dice tristemente, ma anche con un senso di rabbiosa autocritica; e anche questo duplice modo di comunicare funziona da deterrente per il contatto: se infatti provo a offrirle la possibilità di comprendersi attraverso le cose di cui abbiamo appena discusso, lei mi guarda con un misto di compatimento e di fiera soddisfazione, come se mi dicesse: “Ma allora non hai capito che io sono proprio stupida!”
PROTEGGERE LA PROPRIA DISTRUZIONE
Credo che questo genere di strategie siano funzionali al mantenimento della distanza relazionale, più che non un sintomo di una reazione terapeutica negativa o di una coazione a ripetere di antichi traumi; nel senso che, queste ed altre modalità di interazione comunicativa sembrano adatte ad uno scopo ben preciso: conservare e proteggere il proprio spazio esistenziale, pur sapendo che esso è il luogo della distruzione.
Ma tutto questo a cosa ci serve? A non far entrare nessuno nella propria Zona, a tenere in vita il proprio spazio personale, a non trovarci mai troppo vicini all’altro; a diventare inaccessibili, come diceva il Don Juan di Castaneda, senza storia personale e senza identità costituita; perché, come dice lo Stalker, “Passano solo quelli che hanno perduto ogni speranza – gli infelici – ma anche il più infelice morirebbe se non si comporta come deve”.
E così la Zona diventa metafora della propria distruzione interna, e al tempo stesso l’unico luogo dove ci si può riconnettere con il proprio desiderio, e il terribile pericolo ad essa connesso è inscritto nella semplice sacralità della vita.
“Mi hanno sovente domandato che cos’è la Zona – dice Tarkovskij – che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e di disperazione quando sento domande del genere. La Zona come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, della sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.”
(*) Psicologo-Psicoterapeuta ad orientamento corporeo. Professor Assistant alla West Deutsche Akademie di Dusseldorf. Direttore della S.I.B. (Società Italiana di Biosistemica) – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Biosistemica Bologna. Insegna Pedagogia Speciale presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Genova.